di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria
(analisi tratta dal volume Dal testo alla storia. dalla storia al testo. Edizione gialla, volume III, tomo secondo/a, pp. 320-321)
Zeno proclama non solo il proprio amore per la moglie, ma anche la propria ammirazione per la sua perfetta «salute», la volontà di divenire come lei, la speranza che il matrimonio possa assicurare anche a lui una salute analoga. Questo rivela nell’inetto, nel "malato", un disperato bisogno di integrarsi nella società borghese, di essere "normale": ed essere normale, nella società borghese, significa esser buon padre di famiglia e abile uomo d’affari. Il matrimonio con Augusta sembra realizzare almeno la prima di queste due aspirazioni profonde, che può essere la condizione per la realizzazione dell’altra («Stavo collaborando alla creazione di una famiglia patriarcale e diventavo io stesso il patriarca che avevo odiato e che ora m’appariva quale il segnacolo della salute»). Come sempre, però, non si può prestare intera fede alla prospettiva di Zeno, sia dello Zeno attore che vive i fatti narrati sia dello Zeno scrittore che li racconta nel suo memoriale a distanza di tempo. In realtà la sensazione di benessere e di felicità dell’eroe deriva dal fatto che egli ha trovato in Augusta un perfetto sostitutivo della figura materna, di quella dolcezza di cui ha bisogno. Con lei può quindi illudersi di essere divenuto quel «patriarca» con la cui immagine non aveva mai potuto coincidere, e può recitare convinto quella parte, ma la dipendenza dall’ideale seno materno rivela come tutte le sue debolezze permangano immutate. Così la proclamata «convalescenza», la speranza di acquisire nel matrimonio la «salute» di Augusta, è smentita totalmente da quanto Zeno confessa poco più avanti, l’insorgere di disturbi patologici di tipo fobico già durante lo stesso viaggio di nozze: la paura di essere aggredito da nemici e di essere accusato di furto, il terrore di morire (di cui viene trovato un ingegnoso alibi nella pretesa gelosia per Augusta, che dopo la sua morte renderà «beato» un altro). Ci troviamo di fronte alla consueta, sottile inattendibilità della prospettiva di Zeno (narratore e personaggio).
Questa inattendibilità si manifesta non solo nei confronti di se stesso, ma soprattutto verso la moglie. Dietro le proteste di amore e di ammirazione per Augusta, dietro il desiderio di somigliarle, si intravedono sentimenti ben diversi. Il ritratto che Zeno traccia di lei è perfido e corrosivo, e rivela diffidenza, disprezzo, irrisione, ostilità. Nella presentazione di Zeno Augusta appare, nel suo limitato e ottuso sistema di certezze, un perfetto campione di "normalità" borghese: per lei tutto ha un posto stabilito, certo («Se anche la terra girava non occorreva mica avere il mal di mare! »); la buona moglie si chiude nella ristretta cerchia delle sue abitudini, nella realtà del piccolo mondo familiare, solida e rassicurante, e ci sta a suo agio, sorretta anche, per quanto riguarda la realtà esterna al "nido", da una fiducia incrollabile nelle istituzioni ufficiali, rappresentate essenzialmente dalle autorità politiche e dai medici. E un ritratto simmetrico a quello del padre di Zeno. Anche Augusta è caratterizzata dalla tetragona immobilità con cui è piantata nel mondo. Anzi, il suo rifiuto di ogni movimento è persino maggiore di quello del signor Cosini: questi è almeno disturbato dall’idea degli antipodi che stanno con la testa in giù, ed è costretto a rimuovere il pensiero per ritrovare il proprio equilibrio, Augusta invece assorbe tranquillamente l’idea del movimento della terra, senza turbamenti, perché il movimento e il mutamento non la toccano per nulla: con la sua ottusa sicurezza li neutralizza del tutto; se a Cosini padre «si sconvolgeva lo stomaco», Augusta non è neppure sfiorata dal «mal di mare». Sappiamo già come per Svevo l’immobilità sia pericolosa: «la vita ha dei veleni; ma poi anche degli altri veleni che servono di contravveleni: solo correndo si può sottrarsi ai primi e giovarsi degli altri»; se ci si stabilisce immobilmente in un punto dell’universo, «si finisce per inquinarsi». Ebbene, i solidi borghesi come il signor Cosini e Augusta Malfenti sono proprio «inquinati» da questo «veleno».
Si può capire allora l’ambivalenza di Zeno, la sorda, latente ostilità che traspare dalle parole riferite alla moglie (come già dal ritratto del padre). Zeno è proprio il suo opposto: in quanto «inetto», è mutevole, incostante, inafferrabile, come allo stato mercuriale. Se quindi in lui c’è un disperato bisogno di integrazione nel mondo borghese, per trovare rimedio alla propria "malattia", per diventare "normale" e "sano", dall’altro lato la sua diversità è irriducibile e gli impedisce quella integrazione, lo costringe sempre a restar fuori da quel mondo, a vederlo con diffidenza e fastidio. Le ambivalenze di Zeno, che si traducono nella sua inattendibilità come narratore, assumono così una funzione straniante. Proprio in quanto è un essere mobile e fluido, la sua visione fa risaltare tutto il «veleno» insito nella condizione irrigidita e cristallizzata dei buoni borghesi, "normali" e soddisfatti di sé. Lo sguardo dell’inetto, del "malato", in quanto estraneo e diverso, mette in crisi le nozioni comuni, gerarchicamente stabilite, di "salute" e "malattia". Se la salute è esteriormente di Cosini padre, di Augusta, di Malfenti, di Guido Speier, la malattia è di Zeno. Ma lo sguardo "altro" di Zeno sconvolge le gerarchie, fa divenire tutto incerto e ambiguo, converte la salute in malattia («Io sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco perché m’accorgo che, analizzandola, la converto in malattia. E scrivendone, comincio a dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d’istruzione per guarire»). Il punto di vista di Zeno riesce a cogliere la necrosi che invade i "sani", il «veleno» che li inquina, il fatto cioè che sono essi i veri malati. Per questo Zeno può divenire strumento acutissimo di critica delle ottuse e limitate certezze del mondo borghese, chiuso nel suo angusto giro d’orizzonte, incapace di adattarsi alla mobilità del reale.
In Zeno si fondono così inestricabilmente cecità e chiaroveggenza, menzogna e verità: l’eroe mente, stravolge i fatti, si costruisce alibi, ma nel momento stesso in cui mistifica il senso del suo agire offre la chiave per vedere più a fondo in ciò che lo circonda.
Questa inattendibilità si manifesta non solo nei confronti di se stesso, ma soprattutto verso la moglie. Dietro le proteste di amore e di ammirazione per Augusta, dietro il desiderio di somigliarle, si intravedono sentimenti ben diversi. Il ritratto che Zeno traccia di lei è perfido e corrosivo, e rivela diffidenza, disprezzo, irrisione, ostilità. Nella presentazione di Zeno Augusta appare, nel suo limitato e ottuso sistema di certezze, un perfetto campione di "normalità" borghese: per lei tutto ha un posto stabilito, certo («Se anche la terra girava non occorreva mica avere il mal di mare! »); la buona moglie si chiude nella ristretta cerchia delle sue abitudini, nella realtà del piccolo mondo familiare, solida e rassicurante, e ci sta a suo agio, sorretta anche, per quanto riguarda la realtà esterna al "nido", da una fiducia incrollabile nelle istituzioni ufficiali, rappresentate essenzialmente dalle autorità politiche e dai medici. E un ritratto simmetrico a quello del padre di Zeno. Anche Augusta è caratterizzata dalla tetragona immobilità con cui è piantata nel mondo. Anzi, il suo rifiuto di ogni movimento è persino maggiore di quello del signor Cosini: questi è almeno disturbato dall’idea degli antipodi che stanno con la testa in giù, ed è costretto a rimuovere il pensiero per ritrovare il proprio equilibrio, Augusta invece assorbe tranquillamente l’idea del movimento della terra, senza turbamenti, perché il movimento e il mutamento non la toccano per nulla: con la sua ottusa sicurezza li neutralizza del tutto; se a Cosini padre «si sconvolgeva lo stomaco», Augusta non è neppure sfiorata dal «mal di mare». Sappiamo già come per Svevo l’immobilità sia pericolosa: «la vita ha dei veleni; ma poi anche degli altri veleni che servono di contravveleni: solo correndo si può sottrarsi ai primi e giovarsi degli altri»; se ci si stabilisce immobilmente in un punto dell’universo, «si finisce per inquinarsi». Ebbene, i solidi borghesi come il signor Cosini e Augusta Malfenti sono proprio «inquinati» da questo «veleno».
Si può capire allora l’ambivalenza di Zeno, la sorda, latente ostilità che traspare dalle parole riferite alla moglie (come già dal ritratto del padre). Zeno è proprio il suo opposto: in quanto «inetto», è mutevole, incostante, inafferrabile, come allo stato mercuriale. Se quindi in lui c’è un disperato bisogno di integrazione nel mondo borghese, per trovare rimedio alla propria "malattia", per diventare "normale" e "sano", dall’altro lato la sua diversità è irriducibile e gli impedisce quella integrazione, lo costringe sempre a restar fuori da quel mondo, a vederlo con diffidenza e fastidio. Le ambivalenze di Zeno, che si traducono nella sua inattendibilità come narratore, assumono così una funzione straniante. Proprio in quanto è un essere mobile e fluido, la sua visione fa risaltare tutto il «veleno» insito nella condizione irrigidita e cristallizzata dei buoni borghesi, "normali" e soddisfatti di sé. Lo sguardo dell’inetto, del "malato", in quanto estraneo e diverso, mette in crisi le nozioni comuni, gerarchicamente stabilite, di "salute" e "malattia". Se la salute è esteriormente di Cosini padre, di Augusta, di Malfenti, di Guido Speier, la malattia è di Zeno. Ma lo sguardo "altro" di Zeno sconvolge le gerarchie, fa divenire tutto incerto e ambiguo, converte la salute in malattia («Io sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco perché m’accorgo che, analizzandola, la converto in malattia. E scrivendone, comincio a dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d’istruzione per guarire»). Il punto di vista di Zeno riesce a cogliere la necrosi che invade i "sani", il «veleno» che li inquina, il fatto cioè che sono essi i veri malati. Per questo Zeno può divenire strumento acutissimo di critica delle ottuse e limitate certezze del mondo borghese, chiuso nel suo angusto giro d’orizzonte, incapace di adattarsi alla mobilità del reale.
In Zeno si fondono così inestricabilmente cecità e chiaroveggenza, menzogna e verità: l’eroe mente, stravolge i fatti, si costruisce alibi, ma nel momento stesso in cui mistifica il senso del suo agire offre la chiave per vedere più a fondo in ciò che lo circonda.
Postato il 23 marzo 2011
Nessun commento:
Posta un commento