di Claudio Sartea
Il diritto, e la riflessione su di esso, hanno un interessante vantaggio. Rispetto alla morale, in effetti, il diritto può concedersi almeno ogni tanto il lusso di un certo pragmatismo: e la leggerezza di sorvolare sulle intenzioni recondite o le ripercussioni indirette nel lunghissimo periodo (queste ultime, al più, dovrebbero costituire oggetto della riflessione politica, quando c’è).
Il pragmatismo del diritto non riguarda ovviamente i valori: già più volte mi son permesso su queste pagine di contraddire uno degli assunti di base del positivismo giuridico, che a partire almeno da Kelsen sostiene che «il diritto può avere qualsiasi contenuto». Non è vero: il diritto ha dei fini propri che dipendono dalla sua ragion d’essere, e quindi non può avere qualsiasi contenuto.
Sul bene «vita umana» ciò è specialmente evidente. In un recente e voluminoso studio, Amartya Sen rielabora la nozione ulpianea di giustizia («dare a ciascuno il suo») con l’apologo dei tre bambini che vogliono l’unico flauto disponibile. Anne è la sola che sa suonarlo: per questo ritiene di avervi diritto. Bob è poverissimo e non ha altri giochi, per questo lo rivendica come suo.
Clara è invece colei che l’ha progettato e costruito, perciò lo pretende. A chi è «giusto» dare il flauto?
La vita è un bene del tutto particolare. Non dipende dalle abilità (Anne non la merita più degli altri), né dalle condizioni sociali ed economiche, che sarebbero decisive per Bob, o dall’impegno profuso per ottenerla, su cui si accampano le pretese di Clara. La vita è un bene che precede la distribuzione di tutti gli altri beni: perciò diciamo, con una formula sempre più vilipesa, ma che francamente mi pare irrinunciabile, che la vita è un bene indisponibile e costituisce il titolo previo di partecipazione a ogni successiva distribuzione. In altri termini, essa rappresenta il senso e il fondamento del diritto oggettivo e l’origine di ogni ulteriore diritto soggettivo. Sul bene vita dunque non ci sono argomenti che tengono: non è possibile elaborare giudizi a priori, o valutazioni a posteriori, che consentano a chicchessia – foss’anche lo stesso titolare – di disporne radicalmente. Questo è il principio da cui non possiamo prescindere se ci sta a cuore un’autentica difesa giuridica della vita umana, su una base di uguaglianza. Quanto alla legge in discussione alla Camera, al di là delle mille perfettibilità che caratterizzano tutti i testi normativi, occorre anzitutto chiedersi questo: tale apparato normativo migliora o peggiora la situazione ordinamentale esistente? In conseguenza della sua applicazione, il bene vita si troverà più oppure meno tutelato di quanto non avvenga oggi? Di più: rispetto all’assetto vigente, esso implica scenari sociali e politici più favorevoli o più sfavorevoli alla vita umana, alla sua cura, alla sua decisa promozione e sostegno?
I sostenitori dell’autodeterminazione in opposizione all’indisponibilità, ovviamente, non si sentiranno minimamente interpellati da questi riferimenti. Forse però coloro che avanzano perplessità – spesso anche molto ragionevoli – sull’utilità di una legge, o di questa legge, potrebbero utilmente meditarli.
Il diritto giurisprudenziale, che pure è almeno formalmente estraneo alla nostra tradizione giuridica recente, costituisce una realtà importante e fruttuosa: ma quando si sposa con il relativismo assiologico o con qualcuno degli infausti malintesi odierni sulla neutralità delle istituzioni e sull’autonomia dei soggetti, rischia di produrre dei mostri. A quel punto, una legge che assicuri una presa in carico decisa del bene vita si rivela, per lo meno, rivelatrice di un ragionevole pragmatismo.
Il pragmatismo del diritto non riguarda ovviamente i valori: già più volte mi son permesso su queste pagine di contraddire uno degli assunti di base del positivismo giuridico, che a partire almeno da Kelsen sostiene che «il diritto può avere qualsiasi contenuto». Non è vero: il diritto ha dei fini propri che dipendono dalla sua ragion d’essere, e quindi non può avere qualsiasi contenuto.
Sul bene «vita umana» ciò è specialmente evidente. In un recente e voluminoso studio, Amartya Sen rielabora la nozione ulpianea di giustizia («dare a ciascuno il suo») con l’apologo dei tre bambini che vogliono l’unico flauto disponibile. Anne è la sola che sa suonarlo: per questo ritiene di avervi diritto. Bob è poverissimo e non ha altri giochi, per questo lo rivendica come suo.
Clara è invece colei che l’ha progettato e costruito, perciò lo pretende. A chi è «giusto» dare il flauto?
La vita è un bene del tutto particolare. Non dipende dalle abilità (Anne non la merita più degli altri), né dalle condizioni sociali ed economiche, che sarebbero decisive per Bob, o dall’impegno profuso per ottenerla, su cui si accampano le pretese di Clara. La vita è un bene che precede la distribuzione di tutti gli altri beni: perciò diciamo, con una formula sempre più vilipesa, ma che francamente mi pare irrinunciabile, che la vita è un bene indisponibile e costituisce il titolo previo di partecipazione a ogni successiva distribuzione. In altri termini, essa rappresenta il senso e il fondamento del diritto oggettivo e l’origine di ogni ulteriore diritto soggettivo. Sul bene vita dunque non ci sono argomenti che tengono: non è possibile elaborare giudizi a priori, o valutazioni a posteriori, che consentano a chicchessia – foss’anche lo stesso titolare – di disporne radicalmente. Questo è il principio da cui non possiamo prescindere se ci sta a cuore un’autentica difesa giuridica della vita umana, su una base di uguaglianza. Quanto alla legge in discussione alla Camera, al di là delle mille perfettibilità che caratterizzano tutti i testi normativi, occorre anzitutto chiedersi questo: tale apparato normativo migliora o peggiora la situazione ordinamentale esistente? In conseguenza della sua applicazione, il bene vita si troverà più oppure meno tutelato di quanto non avvenga oggi? Di più: rispetto all’assetto vigente, esso implica scenari sociali e politici più favorevoli o più sfavorevoli alla vita umana, alla sua cura, alla sua decisa promozione e sostegno?
I sostenitori dell’autodeterminazione in opposizione all’indisponibilità, ovviamente, non si sentiranno minimamente interpellati da questi riferimenti. Forse però coloro che avanzano perplessità – spesso anche molto ragionevoli – sull’utilità di una legge, o di questa legge, potrebbero utilmente meditarli.
Il diritto giurisprudenziale, che pure è almeno formalmente estraneo alla nostra tradizione giuridica recente, costituisce una realtà importante e fruttuosa: ma quando si sposa con il relativismo assiologico o con qualcuno degli infausti malintesi odierni sulla neutralità delle istituzioni e sull’autonomia dei soggetti, rischia di produrre dei mostri. A quel punto, una legge che assicuri una presa in carico decisa del bene vita si rivela, per lo meno, rivelatrice di un ragionevole pragmatismo.
Il diritto giurisprudenziale costituisce una realtà importante e fruttuosa: ma quando si sposa con il relativismo o con qualcuno degli infausti malintesi sull’autonomia delle persone, produce dei mostri
«Avvenire» del 3 marzo 2011
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