di Alessandro Schiesaro
L'Italia è stata per lungo tempo in coda o quasi nelle classifiche che stimano, come si dice in gergo, "il tasso di partecipazione", cioè la percentuale di diplomati che a 19 anni decide di proseguire negli studi. Nel 2000 lo facevano 39 studenti su 100, pochi in relazione a punte avanzate come alcuni paesi scandinavi che veleggiavano già allora oltre il 60-70%, non molti anche se il confronto si limitava al 47% di Spagna e Gran Bretagna.
Ma la riforma del cosiddetto 3+2 - lasciamone da parte per un momento meriti e difetti complessivi - comportò inzialmente un'accelerazione vertiginosa: 55% nel 2004, addirittura un picco del 56% nel biennio successivo. Poi una graduale correzione fino al 51% del 2008, mentre i primi dati (incompleti) per il 2010 sembrano segnare un calo ulteriore. In termini geografici le isole perdono più della media, centro e sud restano stabili, il nord guadagna qualche punto percentuale.
Il trend discendente degli ultimi anni si deve a una molteplicità di fattori. L'introduzione del 3+2 aveva attratto un numero molto alto di studenti che erano fino ad allora rimasti esclusi dal circuito universitario. La laurea triennale prometteva percorsi più brevi nella durata complessiva e più articolati nella struttura; a questo si aggiungeva l'enfasi sulla professionalizzazione degli studi universitari, che si sarebbero finalmente calati nella realtà del mondo produttivo per dischiudere a tutti, anche a chi proveniva da facoltà molto "teoriche", come Lettere, le porte del lavoro. A queste aspettative gli atenei hanno fatto fronte in una prima fase soprattutto moltiplicando i corsi in area umanistica e sociale, verso i quali si indirizzarono molti studenti nelle cui famiglie non c'erano ancora laureati e studenti "maturi" che volevano acquisire un titolo subito spendibile per ottenere una promozione nel settore pubblico.
Questa euforia iniziale si è scontrata da un lato con la realtà di un mondo del lavoro che non poteva far fronte a un forte aumento improvviso di domanda in alcuni settori, e dall'altro con il progressivo ritorno a requisiti più rigorosi per l'attivazione e la gestione dei corsi di laurea, spesso affrettatamente messi in piedi proprio in discipline che richiedono pochi sforzi in termini di laboratori e attrezzature. Rispetto al picco del 2003 le matricole di Lettere sono ora scese del 36% e quelle di Sociologia del 39%, mentre Ingegneria, Farmacia, Agraria, la stessa Scienze hanno consolidato i guadagni iniziali. Gli studenti sembrano essersi accorti, insomma, che non importa solo se ci si laurea o no, ma anche in quale materia ci si laurea, e come.
Un altro dato significativo riguarda la percentuale di studenti che decidono di iscriversi all'università non subito dopo il diploma, ma qualche anno più tardi. La riforma del 3+2 aveva richiamato sui banchi un numero alto di questo tipo di matricole, che erano arrivate a pesare per un quinto sul totale: oggi quella cifra si è dimezzata se si guarda agli studenti in età tra i 22 e i 30 anni, e gli over 30 sono appena un terzo rispetto a pochi anni fa.
La laurea, non ci sono dubbi, era e resta in ogni caso un ottimo investimento, se non altro perché nell'arco della vita lavorativa consente un guadagno economico nettamente superiore al diploma. Ma la laurea a tutti costi, quale che sia, perde peso e, giustamente, sembra perdere fascino. Rafforzare la qualità delle lauree e puntare con forza sull'orientamento in entrata è quindi più che mai indispensabile per continuare a garantire quel vantaggio competitivo e soprattutto per consentire ai nostri laureati di competere ad armi pari con i migliori laureati dell'economia globale.
Uno dei modi per ottenere questo risultato, lo insegnano tutti i paesi a noi vicini per dimensioni, cultura ed economia, è affiancare a una università forte e pienamente convinta della propria missione un robusto e autorevole canale terziario parallelo a quello universitario. In Germania si iscrive all'università "solo" il 36% dei diplomati, ma un altro 14% frequenta istituti tecnici superiori, come fa il 30% dei diplomati britannici e un numero considerevole di francesi.
Da noi gli Its sono ancora agli albori, e ci vorrà ancora tempo prima che costituiscano una vera alternativa ai tradizionali corsi di laurea. Nel frattempo le università hanno svolto un'azione di supplenza verso segmenti di formazione che tradizionalmente non le competevano, appunto quelli rivolti a una professionalizzazione con minori aspirazioni teorico-critiche ma di più immediata spendibilità lavorativa. Supplenza impropria nelle premesse e di dubbio valore nei risultati, perché solo istituzioni in contatto con le università, ma da queste ben distinte, possono farsi carico di una missione altrettanto importante e però profondamente diversa.
Il capitale di conoscenza di un paese va calcolato prendendo in considerazione il complesso dei profili e dei percorsi di crescita intellettuale e professionale, e soprattutto deve essere aumentato offrendo una serie di alternative adatte ad una platea con interessi diversificati. Il feticcio della laurea ha fatto molti danni; meglio mandarlo in pensione senza rimpianti e concentrare gli sforzi su una riarticolazione del sistema terziario davvero in grado di reggere le sfide del futuro.
Ma la riforma del cosiddetto 3+2 - lasciamone da parte per un momento meriti e difetti complessivi - comportò inzialmente un'accelerazione vertiginosa: 55% nel 2004, addirittura un picco del 56% nel biennio successivo. Poi una graduale correzione fino al 51% del 2008, mentre i primi dati (incompleti) per il 2010 sembrano segnare un calo ulteriore. In termini geografici le isole perdono più della media, centro e sud restano stabili, il nord guadagna qualche punto percentuale.
Il trend discendente degli ultimi anni si deve a una molteplicità di fattori. L'introduzione del 3+2 aveva attratto un numero molto alto di studenti che erano fino ad allora rimasti esclusi dal circuito universitario. La laurea triennale prometteva percorsi più brevi nella durata complessiva e più articolati nella struttura; a questo si aggiungeva l'enfasi sulla professionalizzazione degli studi universitari, che si sarebbero finalmente calati nella realtà del mondo produttivo per dischiudere a tutti, anche a chi proveniva da facoltà molto "teoriche", come Lettere, le porte del lavoro. A queste aspettative gli atenei hanno fatto fronte in una prima fase soprattutto moltiplicando i corsi in area umanistica e sociale, verso i quali si indirizzarono molti studenti nelle cui famiglie non c'erano ancora laureati e studenti "maturi" che volevano acquisire un titolo subito spendibile per ottenere una promozione nel settore pubblico.
Questa euforia iniziale si è scontrata da un lato con la realtà di un mondo del lavoro che non poteva far fronte a un forte aumento improvviso di domanda in alcuni settori, e dall'altro con il progressivo ritorno a requisiti più rigorosi per l'attivazione e la gestione dei corsi di laurea, spesso affrettatamente messi in piedi proprio in discipline che richiedono pochi sforzi in termini di laboratori e attrezzature. Rispetto al picco del 2003 le matricole di Lettere sono ora scese del 36% e quelle di Sociologia del 39%, mentre Ingegneria, Farmacia, Agraria, la stessa Scienze hanno consolidato i guadagni iniziali. Gli studenti sembrano essersi accorti, insomma, che non importa solo se ci si laurea o no, ma anche in quale materia ci si laurea, e come.
Un altro dato significativo riguarda la percentuale di studenti che decidono di iscriversi all'università non subito dopo il diploma, ma qualche anno più tardi. La riforma del 3+2 aveva richiamato sui banchi un numero alto di questo tipo di matricole, che erano arrivate a pesare per un quinto sul totale: oggi quella cifra si è dimezzata se si guarda agli studenti in età tra i 22 e i 30 anni, e gli over 30 sono appena un terzo rispetto a pochi anni fa.
La laurea, non ci sono dubbi, era e resta in ogni caso un ottimo investimento, se non altro perché nell'arco della vita lavorativa consente un guadagno economico nettamente superiore al diploma. Ma la laurea a tutti costi, quale che sia, perde peso e, giustamente, sembra perdere fascino. Rafforzare la qualità delle lauree e puntare con forza sull'orientamento in entrata è quindi più che mai indispensabile per continuare a garantire quel vantaggio competitivo e soprattutto per consentire ai nostri laureati di competere ad armi pari con i migliori laureati dell'economia globale.
Uno dei modi per ottenere questo risultato, lo insegnano tutti i paesi a noi vicini per dimensioni, cultura ed economia, è affiancare a una università forte e pienamente convinta della propria missione un robusto e autorevole canale terziario parallelo a quello universitario. In Germania si iscrive all'università "solo" il 36% dei diplomati, ma un altro 14% frequenta istituti tecnici superiori, come fa il 30% dei diplomati britannici e un numero considerevole di francesi.
Da noi gli Its sono ancora agli albori, e ci vorrà ancora tempo prima che costituiscano una vera alternativa ai tradizionali corsi di laurea. Nel frattempo le università hanno svolto un'azione di supplenza verso segmenti di formazione che tradizionalmente non le competevano, appunto quelli rivolti a una professionalizzazione con minori aspirazioni teorico-critiche ma di più immediata spendibilità lavorativa. Supplenza impropria nelle premesse e di dubbio valore nei risultati, perché solo istituzioni in contatto con le università, ma da queste ben distinte, possono farsi carico di una missione altrettanto importante e però profondamente diversa.
Il capitale di conoscenza di un paese va calcolato prendendo in considerazione il complesso dei profili e dei percorsi di crescita intellettuale e professionale, e soprattutto deve essere aumentato offrendo una serie di alternative adatte ad una platea con interessi diversificati. Il feticcio della laurea ha fatto molti danni; meglio mandarlo in pensione senza rimpianti e concentrare gli sforzi su una riarticolazione del sistema terziario davvero in grado di reggere le sfide del futuro.
«Il Sole 24 Ore» del 14 marzo 2011
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