di Maurizio Soldini
Lo scrittore Salvatore Mannuzzu, in una intervista ad «Avvenire« rilasciata a Fulvio Panzeri il 24 febbraio scorso, ha sostenuto che la letteratura non può nascere da esercizi intellettualistici, «non nasce a comando», e che per scrivere, per aprirsi al linguaggio letterario, sono necessarie «due condizioni: la necessità e la sincerità». La dimensione di Mannuzzu è una dimensione esistenziale, nella quale c’è il rischio di non guarire dalla vita: «…non credo più che dalla vita si possa guarire, soprattutto nel tempo che ci sta attorno. Non accetto la disperazione e oggi non trovo che sia più tempo di elegia. Il nostro è un tempo di tragedia». Per Mannuzzu la letteratura è «una possibilità di vita» e dal racconto non si può che imparare (a vivere). La tutela della vita ci chiama a gridare con la forza della ragione e con coraggio la sua specialità. Ecco perché la letteratura è importante anche per la bioetica. La bioetica ha compiuto 40 anni. Nel 1970 Van Potter coniò il termine bioethics, preconizzando una disciplina che gettasse un ponte tra le discipline scientifiche e quelle umanistiche. Questa, nonostante sia giovane o forse proprio per la sua giovane età, avverte dei malesseri di crescita che rischiano di fargli perdere la sua identità. Infatti sempre più spesso si parla di 'biodiritto' e di 'biopolitica'. Ma la bioetica è qualcosa di diverso. Questa misinterpretata identità la fa stare male. I malesseri sono riposti soprattutto nel 'problema epistemologico' e la cura dovrebbe essere attuata attraverso un’assunzione da parte della stessa del linguaggio filosofico e del linguaggio letterario. Perché la bioetica, etica della vita, è una disciplina 'filosofica', caratterizzata, da un’identità che si gioca soprattutto su una specifica metodologia, dialettica e argomentativa. Ora, se si fa riferimento ad una delle figure di filosofia morale, quale l’'etica delle virtù', etica nell’orizzonte della 'prima persona', ne consegue che il 'carattere' assume un’importanza tutta particolare. Il carattere è 'della' persona, di 'quella' persona particolare nella sua concretezza e realtà, in contesto e in azione. Se così è, a scanso di impostazioni 'astratte' come quella dell’etica di 'terza persona', l’invito è a pensare alle implicazioni formative e pedagogiche della bioetica, piuttosto che alle derive deontologiche e legalistiche. E se così è, diventa importante anche il linguaggio letterario. Nel linguaggio letterario, e in particolare in quello poetico, si dà l’estrema possibilità di comprensione sintetica del senso della vita. La letteratura, come dice Mannuzzu, ci può insegnare la vita. Il linguaggio letterario evita i compartimenti stagni, le riduzioni, le astrazioni, le concettualizzazioni e tenta l’esplorazione del reale in ordine al perché ultimo, al quid radicale. Si tratta di un punto di fuoco diverso che tiene sempre presente l’abissalità e la mai definibile condizione umana, che la letteratura e in particolare la poesia con il loro linguaggio ci ricordano a proposito della nostra irripetibile esistenza. Insomma, nella simbiosi letteratura-bioetica è riposta una delle possibili sfide per una educazione integrale alla verità e al bene, ma in particolare alle virtù. Non per nulla uno dei teorici contemporanei della riabilitazione e dell’attualizzazione dell’etica delle virtù, MacIntyre, ha ricordato come la morale sia «un’educazione sentimentale». In questo orizzonte la bioetica non potrà non farsi forte di una letteratura personalistica, etica e antropologica, in un crinale tra tragedia ed elegia.
«Avvenire» del 5 marzo 2011
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