di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria (analisi tratta dal volume Dal testo alla storia. Dalla storia al testo. Edizione gialla, volume III, tomo secondo/a, pp. 326-327)
In questo episodio troviamo Zeno dinanzi a un’altra morte, che viene a colpire tutto il suo sistema di difese e di autoinganni, quella dell’antagonista. Nei romanzi sveviani l’eroe inetto si trova sempre di fronte degli antagonisti che sono l’opposto rispetto a lui: Alfonso Nitti entra in conflitto con l’elegante e disinvolto Macario, Emilio Brentani con l’amico Balli; «uomo nel vero senso della parola», un piccolo superuomo dominatore "in scala", in una dimensione privata e provinciale; Zeno ha a che fare col cognato Guido, bello, affascinante, sicuro di sé, che sa suonare mirabilmente il violino, mentre Zeno lo strimpella penosamente, e che gli ha sottratto la bellissima Ada. Inizialmente, nei confronti di Guido, l’eroe manifesta un’ostilità scoperta, plateale (la sera dell’incontro in casa Malfenti pensa addirittura di ucciderlo, gettandolo giù da un muretto). Ma questa aggressività non può essere accettata dalla sua coscienza, perché fonte di sensi di colpa insostenibili. Allora, come di consueto, Zeno (personaggio) la maschera, la rimuove, occultandola sotto l’ostentazione di ur profondo, fraterno affetto. Anche lo Zeno narratore, a distanza di anni, non può ammettere il suo odio per il rivale, e continua a protestare di averlo amato. In realtà, mentre Guido precipitava verso la rovina economica, Zeno si trovava al suo fianco e se n’era avvedute benissimo, ma non aveva mosso un dito per soccorrerlo, anzi, gli era stato accanto come per spiarlo, ansioso di assistere alla sua caduta.
La morte di Guido rischia dunque di scatenare i sensi di colpa così laboriosamente sopiti per "innocentizzarsi", per dimostrare ai propri stessi occhi, oltre che a quelli degli altri di essere privo di ogni colpa, Zeno si lancia con dedizione nelle speculazioni di Borsa, pel recuperare le perdite di Guido e salvare il suo patrimonio. Questo lo rassicura, gli dà il senso della sua bontà e del suo amore per il cognato, lo fa sentire perfettamente innocente, anzi generoso e magnanimo. L’inconscio che domina tutti i suoi gesti arriva perfino a convincerlo di provare un profondo dolore per la perdita del suo antagonista. Ma in realtà proprio in questa dedizione si manifesta tutta la sua aggressività: sotto i propositi affettuosi e devoti alla memoria del defunto si celano rivalità e competizione. Salvando il patrimonio di Guido, Zeno gli dà in certo qual modo uno schiaffo, celebra un postumo trionfo su di lui. Il nemico ha dimostrato, con la sua morte, di non essere affatto quell’essere onnipotente che l’inetto temeva; ha rivelato tutta la sua debolezza di fragile vittima di una forza più grande, il caso. Guido, nota Zeno nel visitare la salma, esprime «non una forza, ma la grande stupefazione di essere morto senza averlo voluto». Ora l’inetto può veramente trionfare: l’immagine aggressiva e terrificante dell’antagonista si è dileguata. Zeno può dimostare di essere migliore di lui, buon marito, devoto alla famiglia, abile uomo d’affari, mentre Guido era un adultero impenitente e un irresponsabile travolto dal fallimento.
L’ostilità, e l’aggressività latenti di Zeno si rivelano nell’episodio dello sbaglio di funerale: è uno di quei classici «atti mancati» di cui parla Freud nella Psicopatologia della vita quotidiana, che non sono affatto casuali, ma rivelatori dei nostri impulsi profondi. Zeno, col suo errore, denuncia tutto il suo odio e il suo disprezzo per il rivale. Naturalmente non può ammettere questi sentimenti al livello della coscienza, deve continuare a mascherarli, quindi si costruisce i consueti alibi: «Oramai non mi dispiaceva affatto di essermi sbagliato di funerale e di non aver reso gli ultimi onori al povero Guido. Non potevo indugiarmi in quelle pratiche religiose. Altro dovere m’incombeva: dovevo salvare l’onore del mio amico e difenderne il patrimonio a vantaggio della vedova e dei figli». Zeno allude alle sue speculazioni in Borsa. In realtà, una volta dati gli ordini necessari, non ha più nulla da fare. Ma, nella sua ottica distorta di nevrotico, l’osservare l’andamento dei valori, quasi a «regolarli» magicamente col desiderio, è ritenuto da lui un «lavoro» di grande importanza e molto faticoso. Zeno ingigantisce questa sua operazione ridicola sempre per costruire il castello inattaccabile della propria innocenza. Ma l’euforia e l’energia che lo pervadono nella lunga camminata del ritorno sono eloquenti: avendo finalmente trionfato sull’antagonista, l’inetto si sente forte e sano, spinto da uno slancio di vitalità piena e gioiosa. Si tradisce per un attimo: «Avevo perfettamente dimenticato che venivo dal funerale del mio più intimo amico. Avevo il passo e il respiro del vittorioso»; ma la barriera della censura è inespugnabile: Zeno si affretta a ribadire la propria innocenza, interpretando in chiave non sospetta, legittima, la gioia per la vittoria: «Però la mia gioia per la vittoria era un omaggio al mio povero amico nel cui interesse ero sceso in lizza». E l’ultima menzogna che Zeno dice a se stesso: era «sceso in lizza» per ben altri motivi, per schiacciare l’avversario, almeno alla memoria. Lo comprende benissimo Ada, che, qualche pagina più avanti, gli rinfaccerà: «Così hai fatto in modo ch’egli è morto proprio per una cosa che non ne valeva la pena!». E con grande acutezza continua: «E tu, povero Zeno, senza saperlo, continuavi a vivergli accanto odiandolo [...]. Tu restasti lontano, assente, sempre assente, finché egli non fu sepolto. Poi apparisti sicuro armato di tutto il tuo affetto. Ma, prima, di lui non ti curasti». Queste parole colgono a fondo i veri sentimenti di Zeno, ma egli si rifiuta di riconoscersi in quell’immagine chiudendosi nel suo sistema di difese, che perdura ancora tanto tempo dopo, nel momento in cui scrive, segno che il senso di colpa è ancora ben vivo nel suo inconscio («Quelle parole [...] risuonano tuttavia nell’anima mia [...]. Il rimprovero di Ada, non lo merito»).
L’episodio è un bell’esempio dei labirinti della psiche che Svevo esplora con eccezionale sottigliezza, ma anche della costruzione ironica del racconto, fondato sull’inattendibilità della voce narrante e dell’ottica dello Zeno personaggio, nelle quali si mescolano continuamente «verità» e «bugie», come appunto avverte lo psicanalista dottor S. nella prefazione al manoscritto di Zeno. In effetti anche nei confronti di Guido, come avviene per Cosini padre, per Augusta e per gli altri familiari, l’ottica del "diverso" assume una funzione straniante e critica: il brillante Guido, passando attraverso il punto di vista di Zeno, si rivela in tutto il suo cinismo, in tutta la sua superficialità e irresponsabilità. Anch’egli è ben fisso nel suo mondo, e per questo «inquinato» dai «veleni» dell’immobilità.
La morte di Guido rischia dunque di scatenare i sensi di colpa così laboriosamente sopiti per "innocentizzarsi", per dimostrare ai propri stessi occhi, oltre che a quelli degli altri di essere privo di ogni colpa, Zeno si lancia con dedizione nelle speculazioni di Borsa, pel recuperare le perdite di Guido e salvare il suo patrimonio. Questo lo rassicura, gli dà il senso della sua bontà e del suo amore per il cognato, lo fa sentire perfettamente innocente, anzi generoso e magnanimo. L’inconscio che domina tutti i suoi gesti arriva perfino a convincerlo di provare un profondo dolore per la perdita del suo antagonista. Ma in realtà proprio in questa dedizione si manifesta tutta la sua aggressività: sotto i propositi affettuosi e devoti alla memoria del defunto si celano rivalità e competizione. Salvando il patrimonio di Guido, Zeno gli dà in certo qual modo uno schiaffo, celebra un postumo trionfo su di lui. Il nemico ha dimostrato, con la sua morte, di non essere affatto quell’essere onnipotente che l’inetto temeva; ha rivelato tutta la sua debolezza di fragile vittima di una forza più grande, il caso. Guido, nota Zeno nel visitare la salma, esprime «non una forza, ma la grande stupefazione di essere morto senza averlo voluto». Ora l’inetto può veramente trionfare: l’immagine aggressiva e terrificante dell’antagonista si è dileguata. Zeno può dimostare di essere migliore di lui, buon marito, devoto alla famiglia, abile uomo d’affari, mentre Guido era un adultero impenitente e un irresponsabile travolto dal fallimento.
L’ostilità, e l’aggressività latenti di Zeno si rivelano nell’episodio dello sbaglio di funerale: è uno di quei classici «atti mancati» di cui parla Freud nella Psicopatologia della vita quotidiana, che non sono affatto casuali, ma rivelatori dei nostri impulsi profondi. Zeno, col suo errore, denuncia tutto il suo odio e il suo disprezzo per il rivale. Naturalmente non può ammettere questi sentimenti al livello della coscienza, deve continuare a mascherarli, quindi si costruisce i consueti alibi: «Oramai non mi dispiaceva affatto di essermi sbagliato di funerale e di non aver reso gli ultimi onori al povero Guido. Non potevo indugiarmi in quelle pratiche religiose. Altro dovere m’incombeva: dovevo salvare l’onore del mio amico e difenderne il patrimonio a vantaggio della vedova e dei figli». Zeno allude alle sue speculazioni in Borsa. In realtà, una volta dati gli ordini necessari, non ha più nulla da fare. Ma, nella sua ottica distorta di nevrotico, l’osservare l’andamento dei valori, quasi a «regolarli» magicamente col desiderio, è ritenuto da lui un «lavoro» di grande importanza e molto faticoso. Zeno ingigantisce questa sua operazione ridicola sempre per costruire il castello inattaccabile della propria innocenza. Ma l’euforia e l’energia che lo pervadono nella lunga camminata del ritorno sono eloquenti: avendo finalmente trionfato sull’antagonista, l’inetto si sente forte e sano, spinto da uno slancio di vitalità piena e gioiosa. Si tradisce per un attimo: «Avevo perfettamente dimenticato che venivo dal funerale del mio più intimo amico. Avevo il passo e il respiro del vittorioso»; ma la barriera della censura è inespugnabile: Zeno si affretta a ribadire la propria innocenza, interpretando in chiave non sospetta, legittima, la gioia per la vittoria: «Però la mia gioia per la vittoria era un omaggio al mio povero amico nel cui interesse ero sceso in lizza». E l’ultima menzogna che Zeno dice a se stesso: era «sceso in lizza» per ben altri motivi, per schiacciare l’avversario, almeno alla memoria. Lo comprende benissimo Ada, che, qualche pagina più avanti, gli rinfaccerà: «Così hai fatto in modo ch’egli è morto proprio per una cosa che non ne valeva la pena!». E con grande acutezza continua: «E tu, povero Zeno, senza saperlo, continuavi a vivergli accanto odiandolo [...]. Tu restasti lontano, assente, sempre assente, finché egli non fu sepolto. Poi apparisti sicuro armato di tutto il tuo affetto. Ma, prima, di lui non ti curasti». Queste parole colgono a fondo i veri sentimenti di Zeno, ma egli si rifiuta di riconoscersi in quell’immagine chiudendosi nel suo sistema di difese, che perdura ancora tanto tempo dopo, nel momento in cui scrive, segno che il senso di colpa è ancora ben vivo nel suo inconscio («Quelle parole [...] risuonano tuttavia nell’anima mia [...]. Il rimprovero di Ada, non lo merito»).
L’episodio è un bell’esempio dei labirinti della psiche che Svevo esplora con eccezionale sottigliezza, ma anche della costruzione ironica del racconto, fondato sull’inattendibilità della voce narrante e dell’ottica dello Zeno personaggio, nelle quali si mescolano continuamente «verità» e «bugie», come appunto avverte lo psicanalista dottor S. nella prefazione al manoscritto di Zeno. In effetti anche nei confronti di Guido, come avviene per Cosini padre, per Augusta e per gli altri familiari, l’ottica del "diverso" assume una funzione straniante e critica: il brillante Guido, passando attraverso il punto di vista di Zeno, si rivela in tutto il suo cinismo, in tutta la sua superficialità e irresponsabilità. Anch’egli è ben fisso nel suo mondo, e per questo «inquinato» dai «veleni» dell’immobilità.
Postato il 23 marzo 2011
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