di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria, Dal testo alla storia. Dalla storia al testo (vol. 3/2 – Svevo e Pirandello. Edizione modulare, pp. 211-213)
La struttura del testo. Come indica l’ampia didascalia iniziale, gli spettatori, entrando in sala, trovano il sipario alzato e il palcoscenico senza scena. Entra un macchinista, che incomincia ad inchiodare delle assi. Il direttore di scena lo allontana, perché gli attori devono provare una nuova commedia, Il giuoco delle parti di Pirandello. Entrano poi in scena gli attori, che chiacchierano fra di loro, e comincia la prova, interrotta da una discussione fra il capocomico ed il primo attore, che trova ridicolo dover impersonare Leone Gala mentre sbatte le uova. Già questo inizio del dramma segna una rottura radicale con le convenzioni teatrali del realismo ottocentesco. Il sipario era il confine che doveva separare la platea dal palcoscenico, cioè la realtà dalla finzione teatrale: solo così, per una convenzione accettata, la finzione poteva essere vissuta dagli spettatori come realtà, a cui partecipare emotivamente, come si partecipa ai fatti della vita vera. L’illusione convenzionale è invece spezzata da Pirandello: gli spettatori hanno inizialmente l’impressione non di assistere a uno spettacolo, ma di cogliere realmente, come per un disguido, la compagnia mentre sta provando una commedia.
A questo punto entrano dal fondo della sala (rompendo di nuovo la barriera convenzionale fra spettatori e palcoscenico) sei figure, che portano maschere e vestono abiti dalle stoffe speciali, dalle pieghe particolarmente rigide. Sono i «sei personaggi»: essi sono stati concepiti dalla mente di un autore, e pertanto, come ritiene Pirandello, sono creature vive di una vita propria, indipendenti da chi le ha create. Tuttavia l’autore si è rifiutato di scrivere il loro dramma. Essi hanno invece bisogno di viverlo, tale dramma, di trovare la sublimazione delle loro vicende nella superiore forma artistica, che li liberi dalla forma in cui sono imprigionati e costretti a rivivere continuamente le loro sofferenze, le loro vergogne, le loro lacerazioni e le loro frustrazioni. Si rivolgono pertanto alla compagnia affinché la loro vicenda, se non ha potuto trovare espressione nell’opera letteraria del drammaturgo, possa almeno prendere vita sulla scena, nella rappresentazione teatrale. Dopo l’iniziale sbalordimento il capocomico e gli attori accettano di recitare il dramma dei personaggi. Questi in parte lo narrano, in parte lo rivivono dinanzi alla compagnia, ridando vita ai conflitti che li dividono (perché essi, fissati alla loro realtà, sono condannati a ripeterla in eterno), sopraffacendosi l’un l’altro, altercando fra loro. Il capocomico, insieme con il Padre, ne ricava un canovaccio con le azioni essenziali, che dovrà costituire la base dell’interpretazione degli attori.
La vicenda che in tal modo si profila è questa. Il Padre ha scoperto che tra la moglie e il proprio segretario è nato un sentimento: egli decide di assecondarlo, e spinge la moglie a vivere con l’amante, a formarsi una nuova famiglia, abbandonando il Figlio nato dall’unione legittima. Il Padre, con morboso compiacimento, negli anni successivi assiste al crescere della nuova famiglia, alla nascita di tre bambini, e segue l’infanzia della Figliastra. Questo è in certo modo l’antefatto. Per le difficoltà economiche la Madre, rimasta vedova, è costretta a lavorare come sarta per l’atelier di Madama Pace; ma in realtà la famiglia può sopravvivere perché la Figliastra si prostituisce nell’atelier, che maschera una casa d’appuntamenti. Qui un giorno giunge il Padre, e, senza saperlo, sta per avere un rapporto con la Figliastra, che egli non ha riconosciuto, ma sopraggiunge a tempo la Madre a impedire l’unione quasi incestuosa. Il secondo "atto", per così dire, è costituito dalla morte della Bambina, la figlia minore, che per disgrazia affoga nella vasca del giardino, e del Giovinetto, che si spara un colpo di pistola.
L’impossibilità di scrivere e di rappresentare il dramma dei personaggi. Come si vede, dal racconto e dalle battute dei personaggi si delinea un drammone a forti tinte, dalla passionalità esasperata, dalle scene madri ad effetto, come l’incontro del Padre e della Figliastra nella casa d’appuntamento o la morte dei due ragazzi, un dramma tipicamente ottocentesco. Ma Pirandello, come egli stesso precisa nella Prefazione alla seconda edizione del testo, del 1925, non ha inteso affatto scrivere quel dramma; al contrario, ha voluto proprio mettere in scena l’impossibilità di scrivere un dramma del genere, nonché di rappresentarlo sulla scena; questo, e non la vicenda dei sei personaggi, è il vero soggetto dell’opera. Nella fase del «grottesco» Pirandello aveva accettato le strutture convenzionali del dramma borghese, che amava proprio intrecci di tale tipo, ma le aveva svuotate dall’interno, portandole all’assurdo e al paradosso, riducendole a meccanismi ridicoli e pietosi insieme, rendendole «grottesche», appunto. Qui prosegue su questa strada, ma fa ancora un passo avanti, di portata decisiva: non si accontenta più di svuotare il dramma borghese dall’interno, ma lo rifiuta del tutto, e fa oggetto dell’opera proprio tale rifiuto. I Sei personaggi sono quindi un testo squisitamente metateatrale, in cui attraverso l’azione drammatica si tratta del dramma stesso e dei problemi che l’investono.
Ne consegue che l’impianto del testo è fortemente critico. L’autore critica innanzitutto la letteratura drammatica del tempo, che si compiace appunto di drammoni del genere, a forti tinte, ancora intrisi di un romanticismo attardato e deteriore. Il rifiuto da parte dell’«autore» di dar forma artistica compiuta ai «sei personaggi» che sono germinati nella sua mente sta proprio ad indicare l’impossibilità di scrivere ormai quel tipo di dramma. Come afferma nella Prefazione, Pirandello intende proporre una «satira dei procedimenti romantici», «in quei miei personaggi così tutti incaloriti a sopraffarsi nella parte che ognun d’essi ha in un certo dramma mentre io li presento come personaggi di un’altra commedia che essi non sanno e non sospettano, così che quella loro esagitazione passionale, propria dei procedimenti romantici, è umoristicamente posta, campata sul vuoto». Come si vede, Pirandello ha chiara coscienza del fatto che il suo metateatro è il proseguimento dell’«umorismo» e del «grottesco»: le passioni "tragiche" dei personaggi, nell’atto stesso in cui sono proposte, vengono straniate e negate, fatte poggiare «sul vuoto».
Oltre che la letteratura drammatica, Pirandello vuole sottoporre a critica la pratica scenica del suo tempo. La Figliastra afferma che l’«autore» non ha voluto scrivere il loro dramma «per avvilimento o per sdegno del teatro, così come il pubblico solitamente lo vede e lo vuole». Così, nel testo, in una luce corrosivamente critica sono presentati gli attori della compagnia, che appaiono dei guitti, dei mestieranti chiusi nei loro schemi interpretativi stereotipati, incapaci di dare veramente vita artistica ai personaggi, e per di più vanitosi e pieni di sé in modo ridicolo e irritante. Si può cogliere di qui il giudizio che Pirandello dava del teatro dei suoi anni. Ma c’è di più: Pirandello è convinto che la rappresentazione scenica in assoluto, a prescindere dalla maggiore o minore bravura degli attori, costituisca inevitabilmente un tradimento, una deformazione dell’idea dell’autore. E quanto aveva teorizzato sin dal 1908 nel saggio Illustratori, attori e traduttori; ed è quanto si può cogliere nella scena, in cui il Padre e la Figliastra non si riconoscono negli attori che li impersonano (non fa differenza il fatto che in questo caso non esista un testo scritto: comunque i personaggi rappresentano ciò che la mente dell’autore ha concepito).
Ricapitolando, i Sei personaggi sono la storia di una rappresentazione teatrale che non si può fare, per due motivi: 1) perché l’autore si rifiuta di scrivere il dramma dei personaggi; Pirandello afferma nella prefazione che nel testo ha mostrato agli spettatori la sua fantasia «in atto di creare, sotto specie di quel palcoscenico stesso»: ha rappresentato l’atto per cui i personaggi balzano vivi dalla sua fantasia, ma anche l’atto di rifiutare la loro vicenda; 2) perché gli attori non sono in grado di dar forma all’idea concepita dall’autore, per limiti loro contingenti e per i limiti intrinseci al teatro stesso. I due motivi sono contenuti l’uno dentro l’altro, come scatole cinesi: Pirandello propone il suo rifiuto del drammone esasperato, e in esso inserisce l’impossibilità della rappresentazione.
I temi cari alla “filosofia” pirandelliana. Attraverso questo discorso "metateatrale", che mette in scena il conflitto fra autore e letteratura drammatica del tempo, fra autore e attori, Pirandello allude poi metaforicamente ad un altro ordine di temi, e più precisamente a tre motivi centrali della sua visione del mondo:
1) L’impossibilità di comunicare, che nasce dal fatto che ciascuno di noi ha in sé una sua visione soggettiva che resta sconosciuta agli altri, per cui non possiamo mai riconoscerci nella visione che gli altri hanno di noi. Come sostiene il Padre: «Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!». Di qui deriva, in ultima analisi, il fatto che il teatro per Pirandello tradisca sempre la volontà dell’autore; e per questo gli attori della compagnia, prescindendo dalla loro mediocrità, non sarebbero mai in grado di rendere il dramma dei personaggi come questi lo sentono.
2) Il rapporto verità-finzione e l’inconsistenza della persona individuale. Se le persone reali sono costruzioni fittizie, non possiedono maggiore realtà dei personaggi della finzione letteraria. Anzi, in un certo senso i personaggi letterari sono più veri dei personaggi viventi, perché questi mutano continuamente, sono mi fluire di stati eterogenei e incoerenti, mentre il personaggio artistico, argomenta il Padre, qui portavoce dell’autore, «ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre "qualcuno". Mentre un uomo [...] può non essere "nessuno"». Pirandello dissolve il confine che abitualmente separa realtà e finzione: anche quella che crediamo realtà è finzione, costruzione soggettiva. Vissuta dall’interno, la "finzione" dei personaggi è realtà. Per questo al termine le ombre della Bambina e del Giovinetto non compaiono più: nella loro realtà, quella fantastica, sono morti; e difatti, mentre gli attori gridano «Finzione! Finzione!», i personaggi ribattono: «Ma che finzione! Realtà, realtà, signori, realtà!» (e su questo conflitto si chiude praticamente il dramma).
3) Infine, il conflitto vita forma, o, per usare le parole di Pirandello stesso nella Prefazione; «il tragico conflitto immanente tra la vita che di continuo si muove e cambia e la forma che la fissa, immutabile». Soprattutto il Padre e la Figliastra «parlano di questa atroce inderogabile fissità della loro forma, nella quale l’uno e l’altra vedono espresse per sempre, immutabilmente, la loro essenzialità, che per l’uno significa castigo e per l’altra vendetta; e la difendono contro le smorfie fittizie e la incosciente volubilità degli attori e cercano d’imporla al volgare Capocomico che vorrebbe alterarla e accomodarla alle così dette esigenze del teatro».
A questo punto entrano dal fondo della sala (rompendo di nuovo la barriera convenzionale fra spettatori e palcoscenico) sei figure, che portano maschere e vestono abiti dalle stoffe speciali, dalle pieghe particolarmente rigide. Sono i «sei personaggi»: essi sono stati concepiti dalla mente di un autore, e pertanto, come ritiene Pirandello, sono creature vive di una vita propria, indipendenti da chi le ha create. Tuttavia l’autore si è rifiutato di scrivere il loro dramma. Essi hanno invece bisogno di viverlo, tale dramma, di trovare la sublimazione delle loro vicende nella superiore forma artistica, che li liberi dalla forma in cui sono imprigionati e costretti a rivivere continuamente le loro sofferenze, le loro vergogne, le loro lacerazioni e le loro frustrazioni. Si rivolgono pertanto alla compagnia affinché la loro vicenda, se non ha potuto trovare espressione nell’opera letteraria del drammaturgo, possa almeno prendere vita sulla scena, nella rappresentazione teatrale. Dopo l’iniziale sbalordimento il capocomico e gli attori accettano di recitare il dramma dei personaggi. Questi in parte lo narrano, in parte lo rivivono dinanzi alla compagnia, ridando vita ai conflitti che li dividono (perché essi, fissati alla loro realtà, sono condannati a ripeterla in eterno), sopraffacendosi l’un l’altro, altercando fra loro. Il capocomico, insieme con il Padre, ne ricava un canovaccio con le azioni essenziali, che dovrà costituire la base dell’interpretazione degli attori.
La vicenda che in tal modo si profila è questa. Il Padre ha scoperto che tra la moglie e il proprio segretario è nato un sentimento: egli decide di assecondarlo, e spinge la moglie a vivere con l’amante, a formarsi una nuova famiglia, abbandonando il Figlio nato dall’unione legittima. Il Padre, con morboso compiacimento, negli anni successivi assiste al crescere della nuova famiglia, alla nascita di tre bambini, e segue l’infanzia della Figliastra. Questo è in certo modo l’antefatto. Per le difficoltà economiche la Madre, rimasta vedova, è costretta a lavorare come sarta per l’atelier di Madama Pace; ma in realtà la famiglia può sopravvivere perché la Figliastra si prostituisce nell’atelier, che maschera una casa d’appuntamenti. Qui un giorno giunge il Padre, e, senza saperlo, sta per avere un rapporto con la Figliastra, che egli non ha riconosciuto, ma sopraggiunge a tempo la Madre a impedire l’unione quasi incestuosa. Il secondo "atto", per così dire, è costituito dalla morte della Bambina, la figlia minore, che per disgrazia affoga nella vasca del giardino, e del Giovinetto, che si spara un colpo di pistola.
L’impossibilità di scrivere e di rappresentare il dramma dei personaggi. Come si vede, dal racconto e dalle battute dei personaggi si delinea un drammone a forti tinte, dalla passionalità esasperata, dalle scene madri ad effetto, come l’incontro del Padre e della Figliastra nella casa d’appuntamento o la morte dei due ragazzi, un dramma tipicamente ottocentesco. Ma Pirandello, come egli stesso precisa nella Prefazione alla seconda edizione del testo, del 1925, non ha inteso affatto scrivere quel dramma; al contrario, ha voluto proprio mettere in scena l’impossibilità di scrivere un dramma del genere, nonché di rappresentarlo sulla scena; questo, e non la vicenda dei sei personaggi, è il vero soggetto dell’opera. Nella fase del «grottesco» Pirandello aveva accettato le strutture convenzionali del dramma borghese, che amava proprio intrecci di tale tipo, ma le aveva svuotate dall’interno, portandole all’assurdo e al paradosso, riducendole a meccanismi ridicoli e pietosi insieme, rendendole «grottesche», appunto. Qui prosegue su questa strada, ma fa ancora un passo avanti, di portata decisiva: non si accontenta più di svuotare il dramma borghese dall’interno, ma lo rifiuta del tutto, e fa oggetto dell’opera proprio tale rifiuto. I Sei personaggi sono quindi un testo squisitamente metateatrale, in cui attraverso l’azione drammatica si tratta del dramma stesso e dei problemi che l’investono.
Ne consegue che l’impianto del testo è fortemente critico. L’autore critica innanzitutto la letteratura drammatica del tempo, che si compiace appunto di drammoni del genere, a forti tinte, ancora intrisi di un romanticismo attardato e deteriore. Il rifiuto da parte dell’«autore» di dar forma artistica compiuta ai «sei personaggi» che sono germinati nella sua mente sta proprio ad indicare l’impossibilità di scrivere ormai quel tipo di dramma. Come afferma nella Prefazione, Pirandello intende proporre una «satira dei procedimenti romantici», «in quei miei personaggi così tutti incaloriti a sopraffarsi nella parte che ognun d’essi ha in un certo dramma mentre io li presento come personaggi di un’altra commedia che essi non sanno e non sospettano, così che quella loro esagitazione passionale, propria dei procedimenti romantici, è umoristicamente posta, campata sul vuoto». Come si vede, Pirandello ha chiara coscienza del fatto che il suo metateatro è il proseguimento dell’«umorismo» e del «grottesco»: le passioni "tragiche" dei personaggi, nell’atto stesso in cui sono proposte, vengono straniate e negate, fatte poggiare «sul vuoto».
Oltre che la letteratura drammatica, Pirandello vuole sottoporre a critica la pratica scenica del suo tempo. La Figliastra afferma che l’«autore» non ha voluto scrivere il loro dramma «per avvilimento o per sdegno del teatro, così come il pubblico solitamente lo vede e lo vuole». Così, nel testo, in una luce corrosivamente critica sono presentati gli attori della compagnia, che appaiono dei guitti, dei mestieranti chiusi nei loro schemi interpretativi stereotipati, incapaci di dare veramente vita artistica ai personaggi, e per di più vanitosi e pieni di sé in modo ridicolo e irritante. Si può cogliere di qui il giudizio che Pirandello dava del teatro dei suoi anni. Ma c’è di più: Pirandello è convinto che la rappresentazione scenica in assoluto, a prescindere dalla maggiore o minore bravura degli attori, costituisca inevitabilmente un tradimento, una deformazione dell’idea dell’autore. E quanto aveva teorizzato sin dal 1908 nel saggio Illustratori, attori e traduttori; ed è quanto si può cogliere nella scena, in cui il Padre e la Figliastra non si riconoscono negli attori che li impersonano (non fa differenza il fatto che in questo caso non esista un testo scritto: comunque i personaggi rappresentano ciò che la mente dell’autore ha concepito).
Ricapitolando, i Sei personaggi sono la storia di una rappresentazione teatrale che non si può fare, per due motivi: 1) perché l’autore si rifiuta di scrivere il dramma dei personaggi; Pirandello afferma nella prefazione che nel testo ha mostrato agli spettatori la sua fantasia «in atto di creare, sotto specie di quel palcoscenico stesso»: ha rappresentato l’atto per cui i personaggi balzano vivi dalla sua fantasia, ma anche l’atto di rifiutare la loro vicenda; 2) perché gli attori non sono in grado di dar forma all’idea concepita dall’autore, per limiti loro contingenti e per i limiti intrinseci al teatro stesso. I due motivi sono contenuti l’uno dentro l’altro, come scatole cinesi: Pirandello propone il suo rifiuto del drammone esasperato, e in esso inserisce l’impossibilità della rappresentazione.
I temi cari alla “filosofia” pirandelliana. Attraverso questo discorso "metateatrale", che mette in scena il conflitto fra autore e letteratura drammatica del tempo, fra autore e attori, Pirandello allude poi metaforicamente ad un altro ordine di temi, e più precisamente a tre motivi centrali della sua visione del mondo:
1) L’impossibilità di comunicare, che nasce dal fatto che ciascuno di noi ha in sé una sua visione soggettiva che resta sconosciuta agli altri, per cui non possiamo mai riconoscerci nella visione che gli altri hanno di noi. Come sostiene il Padre: «Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!». Di qui deriva, in ultima analisi, il fatto che il teatro per Pirandello tradisca sempre la volontà dell’autore; e per questo gli attori della compagnia, prescindendo dalla loro mediocrità, non sarebbero mai in grado di rendere il dramma dei personaggi come questi lo sentono.
2) Il rapporto verità-finzione e l’inconsistenza della persona individuale. Se le persone reali sono costruzioni fittizie, non possiedono maggiore realtà dei personaggi della finzione letteraria. Anzi, in un certo senso i personaggi letterari sono più veri dei personaggi viventi, perché questi mutano continuamente, sono mi fluire di stati eterogenei e incoerenti, mentre il personaggio artistico, argomenta il Padre, qui portavoce dell’autore, «ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre "qualcuno". Mentre un uomo [...] può non essere "nessuno"». Pirandello dissolve il confine che abitualmente separa realtà e finzione: anche quella che crediamo realtà è finzione, costruzione soggettiva. Vissuta dall’interno, la "finzione" dei personaggi è realtà. Per questo al termine le ombre della Bambina e del Giovinetto non compaiono più: nella loro realtà, quella fantastica, sono morti; e difatti, mentre gli attori gridano «Finzione! Finzione!», i personaggi ribattono: «Ma che finzione! Realtà, realtà, signori, realtà!» (e su questo conflitto si chiude praticamente il dramma).
3) Infine, il conflitto vita forma, o, per usare le parole di Pirandello stesso nella Prefazione; «il tragico conflitto immanente tra la vita che di continuo si muove e cambia e la forma che la fissa, immutabile». Soprattutto il Padre e la Figliastra «parlano di questa atroce inderogabile fissità della loro forma, nella quale l’uno e l’altra vedono espresse per sempre, immutabilmente, la loro essenzialità, che per l’uno significa castigo e per l’altra vendetta; e la difendono contro le smorfie fittizie e la incosciente volubilità degli attori e cercano d’imporla al volgare Capocomico che vorrebbe alterarla e accomodarla alle così dette esigenze del teatro».
Postato l'11 marzo 2011
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