Furono oltre 50 mila i nostri connazionali deportati nei campi di concentramento dei partigiani rossi dell’ex Jugoslavia
di Costantino Di Sante
I sopravvissuti ai terribili stermini nazisti giurano che quelli titini furono addirittura peggiori. Solo nel 1945, sull'isola di Lissa, furono fucilati e poi buttati in mare 1800 soldati del nostro esercito
Militari e civili italiani prigionieri nei lager della Jugoslavia, un pezzo di storia da raccontare per far luce su una delle conseguenze più tragicamente dimenticate del Secondo conflitto mondiale. Nei campi di concentramento dei partigiani «rossi» di Tito i trattamenti degli italiani incarcerati - censiti in oltre 50 mila - erano «disumani»; nelle numerose strutture di internamento - nomi come Lissa e Biševo suonano sinistri alle orecchie di chi sa - le persone venivano trattate «come bestie». Tanto che quei nostri connazionali che avevano provato l'esperienza dei campi nazisti ammettevano che quelli titini (ne sono stati registrati 65) erano addirittura peggiori di Mauthausen. Ad approfondire questi avvenimenti postbellici è lo storico Costantino Di Sante in questo libro appena uscito per i tipi di Ombre rosse. L'impianto dell'accurato volume cerca di restare in equilibrio tra due posizioni: da una parte, la comprensione che molto del sentimento anti-italiano dei partigiani titini - a gennaio '46 ancora 12 mila italiani erano dietro il filo spinato oltre il confine slavo - fu una reazione alle violenze di cui si macchiarono i fascisti durante l'occupazione fascista della Jugoslavia. Dall'altra parte, però, Di Sante ha il merito di riportare una folta documentazione di nostri connazionali incarcerati dai titini: i racconti sulle loro condizioni di prigionia e sulle efferatezze dei combattenti comunisti sminuiscono il rapporto di «causa-effetto» tra l'azione bellica italiana e la gratuità della repressione su inermi prigionieri di guerra. Ecco cosa scrisse sulla sua detenzione iugoslava Marsilio Bellardinelli, un civile di Jesi, deportato per motivi politici dai tedeschi nel '44: «Posso assicurare che neanche a Mauthausen subimmo tante umiliazioni, privazioni e sofferenze, come a Baronizza». Amerigo Iannucili, universitario napoletano, finito in un campo a Novi Sad: «I partigiani di Tito mi menarono insieme ad altri italiani, chiamandoci fascisti e minacciandoci d i morte. Non esisteva infermeria né alcun senso di umanità: chi era ammalato moriva perché non curato. I partigiani di Tito non rispettano nessuna legge internazionale del prigioniero». E la Croce svizzera relazionò: «In Serbia si trovano 4 mila fra ufficiali e soldati italiani. Le loro condizioni sono pietose. Vestiti di cenci; alimentazione insufficiente; nessuna forma di assistenza». Ma c'è di più: il sentimento anti-italiano dei combattenti titini colpì anche quei nostri connazionali che dopo l'armistizio del '43 erano passati dalla parte dei partigiani. L'artigliere Sebastiano Zappulla era a Ragusa (l'attuale Dubrovnik) con la divisione Messina: dopo l'8 settembre venne internato dai tedeschi a Sarajevo; evaso, si unì ai partigiani anti-nazisti. Rimasto ferito, venne ricoverato a Lissa: «I partigiani si sforzavano di ignorare che io ed i miei compagni avevamo combattuto per la stessa causa ed eravamo pure stati feriti. Essi ci chiamavano fascisti solo perché eravamo italiani. Ci facevano lavorare come cani, non avevano riguardo delle nostre condizioni di salute». Dall'isola di Lissa lo Stato maggiore della marina l'8 gennaio 1945 inviò al ministero degli Esteri un rapporto drammatico: «Dal 10 novembre al 20 dicembre si calcola siano stati fucilati circa 1800 soldati, buttando i cadaveri in mare. Le esecuzioni in massa avvengono a Biševo». Di Sante scandaglia anche le vicende del lungo impasse diplomatico consumatosi tra Italia e Jugoslavia circa lo scambio di prigionieri: una vicenda in cui l'ideologia comunista ebbe una parte notevole. Il Partito di Togliatti cercò in tutti i modi di accaparrarsi il favore degli internati italiani in Jugoslavia, organizzando spedizioni apposite di indottrinamento ideologico. Un esempio? Il commissario politico Piero Mirandola fu inviato a Dubrovnik dal Partito nonostante i capi militari avessero cercato di bandire ogni attività politica dal campo di internamento. Danilo Dolfi, altro esponente Pci in Jugoslavia, scrisse al Mig liore: «La situazione degli italiani è critica, ci sono ancora 30 mila italiani sparsi in tutta la Jugoslavia che soffrono, occorre che non se ne faccia 30 mila anticomunisti». E successivamente il parlamentare Pci Ugo Giovacchini, inviato da De Gasperi a visionare la condizione degli italiani detenuti da Tito, cercò di minimizzare le reale, drammatica situazione. Intanto il leader iugoslavo chiedeva a Roma che la commissione italiana sullo spinoso dossier degli internati fosse composta da «buoni democratici» (ergo, filo-comunisti). Anzi, riferisce Di Sante, per poter rimpatriare in Italia bisognava o essere «affetti da malattie« oppure avere «la documentazione di appartenenza al partito comunista«. Fu l'Alto Commissariato per i prigionieri di guerra, in una relazione del luglio '45, a riconoscere che «le Autorità iugoslave tratteneva arbitrariamente nel loro territorio» 40 mila italiani come «ostaggi» per aver più garanzie sulle proprie rivendicazioni verso Roma.
Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra italiani in Jugoslavia (1941-1945), Ombre Corte Verona, pp. 270; € 22,00.
«Avvenire» dell’8 settembre 2007
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