Autori e critici intervengono sul tema letteratura e ideologia sollevato da Pamuk e dalla Lessing
Di Ranieri Polese
Di Ranieri Polese
Asor Rosa: «I narratori sono indifferenti. E i politici scrivono di evasione»
Due scrittori premi Nobel, Orhan Pamuk e Doris Lessing, con un significativo ma non concordato tempismo, mettono in guardia contro lo stesso pericolo: quello, per la letteratura, di mettersi al servizio della politica, di ideologie, di farsi insomma portatrice di messaggi. «Non ho mai pensato che un romanzo dovesse essere un manifesto politico» dice la Lessing. E Pamuk incalza: l’impegno «distrugge il bello della letteratura». Insomma, il connubio assai stretto che nei due secoli passati legò scrittori e politica, oggi viene additato come un errore, qualcosa che fa male alla letteratura. Basta, insomma, e per sempre, con la figura dello scrittore impegnato, quello che usa la sua arte per il trionfo di un’idea, che si sente investito di un compito etico, civile ma soprattutto politico. Di educatore delle masse, di portabandiera di eventuali rivoluzioni, di testimone di un ideale. Missione che, in fondo, accomunava gli opposti estremi (il Novecento è stato generoso in materia: D’Annunzio, Pound, Juenger per la destra, Sartre, Aragon, Pratolini e tanti altri ancora per la sinistra) e li legava a giuramenti e fedeltà che stavano prima del loro lavoro di costruttori di romanzi. Insomma, impegno addio. «Espresso da due autori che hanno anche scritto romanzi politici - per Pamuk, Neve, per la Lessing c’è Il taccuino d’oro, bibbia del femminismo, e ci sono i libri contro il colonialismo - è un giudizio che mi sembra inutilmente autolimitativo» commenta il romanziere e critico Franco Cordelli. «Forse mentono sapendo di mentire. Certo assumono una posizione estrema. Così come estrema, nell’altro senso, è la posizione un po’ricattatoria del giovane Roberto Saviano, bestseller internazionale con il suo Gomorra: Saviano dice, in sintesi, che o si occupa di camorra, o la letteratura non è niente. Il punto, in realtà, è un altro. È lo stile. È quello che mostra quali sono i rapporti umani vigenti in un dato momento storico. Uno scrittore è politico non solo e non tanto perché fa dichiarazioni a favore di un’ideologia. Ma per come racconta il mondo. Un esempio? Harold Pinter per come scrive, senza bisogno di indicazioni segnaletiche, di messaggi: la durezza della sua scrittura rivela la durezza dei rapporti umani». «Ovvio che la letteratura non è propaganda, manifesto eccetera» dice lo storico Alberto Asor Rosa. «È vero che in nome dell’ideologia si sono prodotte tante immondizie. Ma io non vorrei che l’idea che l’impegno fa male alla letteratura porti alla conseguenza che la letteratura non può parlare di politica. Prova ne sia il fatto che Pamuk e Lessing hanno scritto anche libri fortemente politici. Se le idee politiche diventano personaggi, storie, invenzioni, ben vengano. Forse, in Europa, oggi c’è poca politica in letteratura. Pamuk e Lessing, non a caso, attingono in gran parte a esperienze non europee». Anche lo scrittore Eraldo Affinati (Compagni segreti, Campo del sangue, Bandiera bianca) pone l’accento sullo stile. «Io credo che la responsabilità di uno scrittore sia innanzitutto stilistica. Ma lo stile non è carta. È carattere, quindi valori spirituali, morali e civili trasmessi con intensità unica ed irripetibile. In questo senso possiamo dire che tutti i grandi romanzi sono anche politici. I capolavori italiani, dalla Divina Commedia ai Promessi Sposi, lo confermano. Se, ad esempio, vuoi comprendere cos’è stato il Risorgimento, devi leggere anche la novella Libertà di Giovanni Verga. La guerra civile spagnola sta tutta dentro Omaggio alla Catalogna di George Orwell. Se vuoi capire la nostra Resistenza, non puoi fare a meno del Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio». Già, ma nell’Italia di oggi? In un mondo dove sono ormai caduti i muri e le ideologie, che senso ha ancora parlare d’impegno? «Scrittori impegnati, fedeli al giuramento come nell’Italia del dopoguerra fino agli anni ‘70, non ci saranno più» dice Cordelli. «L’universo della comunicazione è troppo espanso, non permette il crearsi di gruppi in contrasto. Tutti possono parlare, ed è un bene. Del resto, la lotta di classe non c’è più. La logica degli schieramenti è superata». Ha un po’di nostalgia per la Guerra fredda Aldo Nove, classe 1967. «La Guerra fredda è stato un periodo molto stimolante. La situazione dei due mondi contrapposti, entrambi in qualche modo legittimati (uno, quello sovietico, sempre meno, fino a scomparire), dava materia alla letteratura. Anche alla fantascienza. L’Altro, il nemico, era un’immagine definita. Oggi l’Altro ha assunto la forma imprendibile, astratta del terrorismo. Finita la contrapposizione fra i due blocchi, è stata pure cancellata l’utopia. Oggi non vedo impegno nei romanzi italiani. C’è un’attenzione sociologica nell’ultimo Ammaniti, Come Dio comanda, per la vita delle periferie. Ma non è politica. L’ecologia? Ma ai fini della rappresentazione è molto più forte l’immagine della guerra fra uomini. Oggi c’è la letteratura del precariato giovanile, ma si esprime soprattutto a livello di disagio individuale». Ad Asor Rosa, da molti anni studioso dei rapporti fra politica e letteratura (Scrittori e popolo è del 1965) la conclusione. «Credo che una tematica politica, non dico impegno, sia pressoché assente in Italia. I romanzi hanno per oggetto la vita nella sua dimensione di cronaca, lo scorrere silente delle occasioni più ovvie. E tutto questo ha preso il sopravvento sul filone che assorbe i succhi dei conflitti politici. Del resto oggi i politici se li scrivono da soli i romanzi. Oggi la situazione è questa: gli scrittori non scrivono più romanzi politici; e i politici scrivono romanzi di evasione. Ecco, allora la vera domanda da farsi: perché i politici scrivono romanzi d’evasione? Forse per far vedere che non sono politici?».
Due Nobel contro i «manifesti». Qualcosa deve essersi spezzato nel legame tra politica e letteratura, se a ripudiarlo sono proprio autori discussi per le loro prese di posizione. In un’intervista uscita sul «Corriere» martedì scorso, il Premio Nobel turco Orhan Pamuk, coinvolto in una vicenda giudiziaria (poi finita nel nulla) per aver ricordato il genocidio degli armeni, ha criticato con toni forti i romanzi impegnati: a suo avviso «mettersi al servizio di una causa distrugge la bellezza della letteratura». E Doris Lessing, appena insignita del Nobel e a lungo considerata una scrittrice femminista, ha espresso un’opinione analoga in un’intervista apparsa sul «Corriere» di ieri: «Non ho mai pensato che un romanzo dovesse essere un manifesto politico».
«Corriere della sera» del 18 ottobre 2007
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