La retorica del mutamento climatico è divenuta cultura dominante, zittendo chi contesta l’idea che sia tutta colpa dell’uomo. E ora il nobel ad Al Goresancisce il nuovo pensiero unico del post marxismo
di Edoardo Castagna
Ve l’immaginate una campagna pubblicitaria della Coca-Cola tutta centrata su dieci buoni consigli per smetterla di bere bibite gassate? Ovviamente no.
Eppure è da mesi che l’Eni, il principale produttore di energia italiano, ci martella con i suoi suggerimenti per «consumare meglio, guadagnarci tutti». Piccole cose, dall’uso di lampadine a basso consumo al controllo della pressione degli pneumatici, che messe tutte insieme – assicura l’azienda energetica – consentirebbero a ogni famiglia di risparmiare più di millecinquecento euro, un terzo delle spese energetiche annuali. Cioè, di tagliare di un terzo gli incassi dell’Eni, che sentitamente ringrazierebbe. Evidentemente, c’è qualcosa che non funziona. Non nella strategia pubblicitaria dell’Eni, mirata con intelligenza a promuovere un’immagine di sé positiva nell’opinione pubblica. Ma proprio nell’opinione pubblica.
Ha un nome, quel processo che sostituisce la realtà con una sua rappresentazione magari non vera, o non del tutto, ma che pretende di esserlo: ideologia. Uno schema, per forza di cose semplificato, che abbraccia tutto il reale e lo spiega in termini di Bene e Male, di Buoni e Cattivi, e che tritura ogni 'dettaglio' che non si accorda alla sua descrizione. Oggi, nella cosiddetta era della fine delle ideologie, la nuova ideologia si chiama ambientalismo. La lotta-contro-ilriscaldamento- globale è la panacea postmoderna che racchiude in sé tutte le risposte, in tutto e per tutto erede della defunta lotta di classe.
Diritti umani, fame nel mondo, piaga dell’Aids? Tutte questioni secondarie, delle quali sempre meno di parla, bazzecole di fronte alla grande battaglia contro i gas serra. Una carrellata sui titoli di giornali e telegiornali lo conferma: non passa giorno che non registri un nuovo segnale d’allarme climatico, dall’acquazzone in Val Brembana alla moria di foche in Terra del Fuoco.
Che negli ultimi decenni la temperatura media della Terra sia cresciuta è un fatto. Così come è un fatto che sono cresciute anche le emissioni umane di anidride carbonica. A non essere un fatto, ma un’ipotesi, è la correlazione tra i due fattori. L’unica coincidenza evidente è quella temporale, ma soltanto se limitiamo lo sguardo agli ultimissimi decenni. Tra il 1940 e il 1975, invece, le cosiddette «emissioni serra» sono cresciute a ritmo accelerato, mentre le temperature terrestri hanno registrato un lieve raffreddamento. Dettagli, secondo la vulgata dominante che, come ogni ideologia, spaccia il proprio punto di vista per Verità indubitabile – «scientifica», si usa dire oggigiorno.
Coloro che lo contestano – e tra questi ci sono pure studiosi di rango come Richard Lindzen, docente di Meteorologia al Mit – non sarebbero che squallidi negazionisti, ciechi volontari, prezzolati al soldo delle multinazionali dell’energia.
Nocciolo della questione non è quindi il riscaldamento globale in sé, dato acclarato anche se in una misura decisamente più modesta di quanto gli incessanti allarmismi lascino intendere (da fine Ottocento a oggi, l’aumento è stato di poco più di mezzo grado), ma la responsabilità umana in tutto questo. Il grande imputato è l’anidride carbonica, ma anche qui c’è qualcosa che non funziona. Il Nemico è soltanto uno tra i tanti gas che generano l’effetto serra – il quale, giova ricordarlo, è indispensabile per garantire alla Terra le condizioni necessarie per la vita, umana e non –; nettamente più rilevante, in questo processo, è il vapore acqueo. Con il quale però l’uomo c’entra poco o nulla: ecco un primo indizio del perché l’attenzione si concentra tutta sull’anidride carbonica. L’ideologia ambientalista mette tra parentesi tutti i fattori climatici che non sono riconducibili all’uomo – un altro, e fondamentale, è il variabile influsso del sole – e addita all’opinione pubblica l’unico che in qualche modo dipende da noi.
Anche ristretto il campo all’anidride carbonica, tuttavia, qualcosa continua a non tornare. Quello derivante dalle attività umane è appena il trequattro per cento del carbonio dell’atmosfera, sette miliardi di tonnellate annue a fronte delle duecento rilasciate naturalmente da foreste e oceani. Ora, il buon senso – il grande e sempre deriso avversario di ogni ideologia – non può che suggerire la domanda: siamo sicuri che questa piccola frazione di una piccola frazione dei fattori serra, quella riconducibile all’uomo, sia proprio quella decisiva per il riscaldamento globale? Eppure è su questo campo che le armate corazzate dell’ambientalismo, politico e mediatico, schierano tutta la loro potenza di fuoco. Ridurre le emissioni di anidride carbonica, tagliare i consumi di energia, abbandonare i combustibili fossili sono la ricetta aurea che salverà il mondo da catastrofe certa.
Ora, che sia opportuno ridurre la fame di energia, specie di quella non rinnovabile, del mondo contemporaneo non è una fola dell’ideologia ambientalista. A suggerircelo, però, sono altre e più prosaiche considerazioni, come l’evidente insostenibilità sul medio termine di un sistema energetico basato su petrolio e altri idrocarburi in inevitabile via d’esaurimento. A spingerci a contenere la nostra fame di elettricità, finora sperperata senza pudore, potrebbero essere anche considerazioni etiche di alto profilo.
La bassezza dell’ideologia, però, consiste nello spacciare questo dovere, 'ecologico' nel vero senso della parola, per Demiurgo. Che, a ben guardare, ben si sposa con quell’altro presupposto ideologico, pienamente accolto dall’ambientalismo, che vede nell’uomo il cancro del pianeta.
Lasciamo perdere il signore del creato di biblica memoria; già solo considerare l’uomo come un animale tra i tanti è troppo, per i Robespierre in verde. No, gli uomini e le loro attività sono male, e meno ce ne sono, meglio è. Il politologo Giovanni Sartori, curiosamente spalleggiato dal poeta Guido Ceronetti, ha colto al balzo l’occasione per gemellare la crociata ambientalista al suo vecchio – e zoppo – cavallo di battaglia: la 'bomba demografica'.
Sartori a parte, non è un caso che l’ambientalismo abbia fatto breccia prevalentemente tra le sinistre, ormai orfane dei panni caldi del marxismo.
Il nemico della lotta-contro-ilriscaldamento- globale è sempre il bieco capitalismo delle multinazionali, ancora una volta spalleggiato dall’America – non è forse Bush quello che non ha firmato il salvifico Protocollo di Kyoto?
Anche l’obiettivo finale ricorda quello comunista, quel mondo migliore – in senso rigorosamente materiale – dove tutti saranno felici. Così i toni da crociata, l’ossequio ai 'testi sacri' (con i rapporti dell’Ipcc, il Comitato intergovernativo sul mutamento climatico fresco di Nobel, al posto de Il capitale), il mito della 'rivoluzione' verde anziché rossa, l’inflessibile certezza che il Male sia uno e uno soltanto, e la cura altrettanto semplice e unitaria. E in nostro potere: dell’ideologia c’è anche tutta la tracotanza, in questa convinzione che le sorti della Terra siano pienamente nelle mani dell’uomo.
«La sinistra del XXI secolo sarà ecologista o non sarà», annunciavano poche settimane fa su Le monde i verdi francesi François de Rugy e Emmanuel Schor. Un dogma già passato alle vie di fatto da un bel pezzo, ma che negli ultimi anni è diventato qualcosa di più dell’ideologia di una parte. È diventato, secondo il vecchio e ben oliato meccanismo dell’egemonia culturale, il pensiero dominante per tutti. Almeno in Europa, è opinione comune (le statistiche parlano di oltre il sessanta per cento) che il mondo si scaldi per colpa dell’uomo, e che questa colpa sia responsabile non solo di future catastrofi, ma anche dell’inverno un po’ tiepido dell’anno scorso, o dell’ondata di calore di due estati fa, o dell’acquazzone fuori stagione in Val Brembana. A tal punto è sentire dominante, che un ministro della Repubblica può permettersi di affermare senza arrossire – e senza essere sommerso dalle risate – che «la temperatura in Italia è aumentata quattro volte in più che nel resto del mondo» (Alfonso Pecoraro Scanio alla recente Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici). Che un politico americano può vedersi consegnare il più scontato dei Nobel per essere saltato sul carro vincente dell’ideologia verde (Al Gore, riciclatosi come documentarista e promotore di un «Piano Marshall globale per l’ambiente»). Che il segretario delle Nazioni Unite invita tutti a contrastare i «negazionisti» dell’effetto serra, in un’odiosa assimilazione alla Shoah (Ban Kimoon dettando l’agenda dell’Assemblea generale dell’Onu). E che perfino il Grande Cattivo Bush, pur continuando a rifiutare Kyoto, finisce per mettere in agenda qualche intervento per contenere le emissioni di anidride carbonica.
Probabilmente la parabola dell’ideologia verde avrà un epilogo sconfortante. Sotto la pressione del pensiero dominante, è prevedibile che presto o tardi tutti i governi del mondo prenderanno qualche misura 'ecologica'. Così, magari, quella piccola parte dovuta all’uomo di carbonio nell’atmosfera, a sua volta piccola parte dei fattori che determinano l’effetto serra, sarà davvero ridotta, o perlomeno frenata nella sua crescita. E così, quando nel 2050 si sarà verificato che il mondo non è andato arrosto, sarà difficile che si registri una presa di coscienza della fallacia delle previsioni catastrofiste, o una sana presa di distanza dall’arroganza dell’uomo, o una misurata valutazione della sostanziale marginalità delle nostre attività sull’ancora in gran parte sfuggente complessità della Terra. No. Il merito sarà tutto dell’ambientalismo.
Eppure è da mesi che l’Eni, il principale produttore di energia italiano, ci martella con i suoi suggerimenti per «consumare meglio, guadagnarci tutti». Piccole cose, dall’uso di lampadine a basso consumo al controllo della pressione degli pneumatici, che messe tutte insieme – assicura l’azienda energetica – consentirebbero a ogni famiglia di risparmiare più di millecinquecento euro, un terzo delle spese energetiche annuali. Cioè, di tagliare di un terzo gli incassi dell’Eni, che sentitamente ringrazierebbe. Evidentemente, c’è qualcosa che non funziona. Non nella strategia pubblicitaria dell’Eni, mirata con intelligenza a promuovere un’immagine di sé positiva nell’opinione pubblica. Ma proprio nell’opinione pubblica.
Ha un nome, quel processo che sostituisce la realtà con una sua rappresentazione magari non vera, o non del tutto, ma che pretende di esserlo: ideologia. Uno schema, per forza di cose semplificato, che abbraccia tutto il reale e lo spiega in termini di Bene e Male, di Buoni e Cattivi, e che tritura ogni 'dettaglio' che non si accorda alla sua descrizione. Oggi, nella cosiddetta era della fine delle ideologie, la nuova ideologia si chiama ambientalismo. La lotta-contro-ilriscaldamento- globale è la panacea postmoderna che racchiude in sé tutte le risposte, in tutto e per tutto erede della defunta lotta di classe.
Diritti umani, fame nel mondo, piaga dell’Aids? Tutte questioni secondarie, delle quali sempre meno di parla, bazzecole di fronte alla grande battaglia contro i gas serra. Una carrellata sui titoli di giornali e telegiornali lo conferma: non passa giorno che non registri un nuovo segnale d’allarme climatico, dall’acquazzone in Val Brembana alla moria di foche in Terra del Fuoco.
Che negli ultimi decenni la temperatura media della Terra sia cresciuta è un fatto. Così come è un fatto che sono cresciute anche le emissioni umane di anidride carbonica. A non essere un fatto, ma un’ipotesi, è la correlazione tra i due fattori. L’unica coincidenza evidente è quella temporale, ma soltanto se limitiamo lo sguardo agli ultimissimi decenni. Tra il 1940 e il 1975, invece, le cosiddette «emissioni serra» sono cresciute a ritmo accelerato, mentre le temperature terrestri hanno registrato un lieve raffreddamento. Dettagli, secondo la vulgata dominante che, come ogni ideologia, spaccia il proprio punto di vista per Verità indubitabile – «scientifica», si usa dire oggigiorno.
Coloro che lo contestano – e tra questi ci sono pure studiosi di rango come Richard Lindzen, docente di Meteorologia al Mit – non sarebbero che squallidi negazionisti, ciechi volontari, prezzolati al soldo delle multinazionali dell’energia.
Nocciolo della questione non è quindi il riscaldamento globale in sé, dato acclarato anche se in una misura decisamente più modesta di quanto gli incessanti allarmismi lascino intendere (da fine Ottocento a oggi, l’aumento è stato di poco più di mezzo grado), ma la responsabilità umana in tutto questo. Il grande imputato è l’anidride carbonica, ma anche qui c’è qualcosa che non funziona. Il Nemico è soltanto uno tra i tanti gas che generano l’effetto serra – il quale, giova ricordarlo, è indispensabile per garantire alla Terra le condizioni necessarie per la vita, umana e non –; nettamente più rilevante, in questo processo, è il vapore acqueo. Con il quale però l’uomo c’entra poco o nulla: ecco un primo indizio del perché l’attenzione si concentra tutta sull’anidride carbonica. L’ideologia ambientalista mette tra parentesi tutti i fattori climatici che non sono riconducibili all’uomo – un altro, e fondamentale, è il variabile influsso del sole – e addita all’opinione pubblica l’unico che in qualche modo dipende da noi.
Anche ristretto il campo all’anidride carbonica, tuttavia, qualcosa continua a non tornare. Quello derivante dalle attività umane è appena il trequattro per cento del carbonio dell’atmosfera, sette miliardi di tonnellate annue a fronte delle duecento rilasciate naturalmente da foreste e oceani. Ora, il buon senso – il grande e sempre deriso avversario di ogni ideologia – non può che suggerire la domanda: siamo sicuri che questa piccola frazione di una piccola frazione dei fattori serra, quella riconducibile all’uomo, sia proprio quella decisiva per il riscaldamento globale? Eppure è su questo campo che le armate corazzate dell’ambientalismo, politico e mediatico, schierano tutta la loro potenza di fuoco. Ridurre le emissioni di anidride carbonica, tagliare i consumi di energia, abbandonare i combustibili fossili sono la ricetta aurea che salverà il mondo da catastrofe certa.
Ora, che sia opportuno ridurre la fame di energia, specie di quella non rinnovabile, del mondo contemporaneo non è una fola dell’ideologia ambientalista. A suggerircelo, però, sono altre e più prosaiche considerazioni, come l’evidente insostenibilità sul medio termine di un sistema energetico basato su petrolio e altri idrocarburi in inevitabile via d’esaurimento. A spingerci a contenere la nostra fame di elettricità, finora sperperata senza pudore, potrebbero essere anche considerazioni etiche di alto profilo.
La bassezza dell’ideologia, però, consiste nello spacciare questo dovere, 'ecologico' nel vero senso della parola, per Demiurgo. Che, a ben guardare, ben si sposa con quell’altro presupposto ideologico, pienamente accolto dall’ambientalismo, che vede nell’uomo il cancro del pianeta.
Lasciamo perdere il signore del creato di biblica memoria; già solo considerare l’uomo come un animale tra i tanti è troppo, per i Robespierre in verde. No, gli uomini e le loro attività sono male, e meno ce ne sono, meglio è. Il politologo Giovanni Sartori, curiosamente spalleggiato dal poeta Guido Ceronetti, ha colto al balzo l’occasione per gemellare la crociata ambientalista al suo vecchio – e zoppo – cavallo di battaglia: la 'bomba demografica'.
Sartori a parte, non è un caso che l’ambientalismo abbia fatto breccia prevalentemente tra le sinistre, ormai orfane dei panni caldi del marxismo.
Il nemico della lotta-contro-ilriscaldamento- globale è sempre il bieco capitalismo delle multinazionali, ancora una volta spalleggiato dall’America – non è forse Bush quello che non ha firmato il salvifico Protocollo di Kyoto?
Anche l’obiettivo finale ricorda quello comunista, quel mondo migliore – in senso rigorosamente materiale – dove tutti saranno felici. Così i toni da crociata, l’ossequio ai 'testi sacri' (con i rapporti dell’Ipcc, il Comitato intergovernativo sul mutamento climatico fresco di Nobel, al posto de Il capitale), il mito della 'rivoluzione' verde anziché rossa, l’inflessibile certezza che il Male sia uno e uno soltanto, e la cura altrettanto semplice e unitaria. E in nostro potere: dell’ideologia c’è anche tutta la tracotanza, in questa convinzione che le sorti della Terra siano pienamente nelle mani dell’uomo.
«La sinistra del XXI secolo sarà ecologista o non sarà», annunciavano poche settimane fa su Le monde i verdi francesi François de Rugy e Emmanuel Schor. Un dogma già passato alle vie di fatto da un bel pezzo, ma che negli ultimi anni è diventato qualcosa di più dell’ideologia di una parte. È diventato, secondo il vecchio e ben oliato meccanismo dell’egemonia culturale, il pensiero dominante per tutti. Almeno in Europa, è opinione comune (le statistiche parlano di oltre il sessanta per cento) che il mondo si scaldi per colpa dell’uomo, e che questa colpa sia responsabile non solo di future catastrofi, ma anche dell’inverno un po’ tiepido dell’anno scorso, o dell’ondata di calore di due estati fa, o dell’acquazzone fuori stagione in Val Brembana. A tal punto è sentire dominante, che un ministro della Repubblica può permettersi di affermare senza arrossire – e senza essere sommerso dalle risate – che «la temperatura in Italia è aumentata quattro volte in più che nel resto del mondo» (Alfonso Pecoraro Scanio alla recente Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici). Che un politico americano può vedersi consegnare il più scontato dei Nobel per essere saltato sul carro vincente dell’ideologia verde (Al Gore, riciclatosi come documentarista e promotore di un «Piano Marshall globale per l’ambiente»). Che il segretario delle Nazioni Unite invita tutti a contrastare i «negazionisti» dell’effetto serra, in un’odiosa assimilazione alla Shoah (Ban Kimoon dettando l’agenda dell’Assemblea generale dell’Onu). E che perfino il Grande Cattivo Bush, pur continuando a rifiutare Kyoto, finisce per mettere in agenda qualche intervento per contenere le emissioni di anidride carbonica.
Probabilmente la parabola dell’ideologia verde avrà un epilogo sconfortante. Sotto la pressione del pensiero dominante, è prevedibile che presto o tardi tutti i governi del mondo prenderanno qualche misura 'ecologica'. Così, magari, quella piccola parte dovuta all’uomo di carbonio nell’atmosfera, a sua volta piccola parte dei fattori che determinano l’effetto serra, sarà davvero ridotta, o perlomeno frenata nella sua crescita. E così, quando nel 2050 si sarà verificato che il mondo non è andato arrosto, sarà difficile che si registri una presa di coscienza della fallacia delle previsioni catastrofiste, o una sana presa di distanza dall’arroganza dell’uomo, o una misurata valutazione della sostanziale marginalità delle nostre attività sull’ancora in gran parte sfuggente complessità della Terra. No. Il merito sarà tutto dell’ambientalismo.
«Avvenire» del 14 ottobre 2007
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