Le riflessioni di Tzvetan Todorov
di Frediano Sessi
Quando fu chiesto a Kant se lui pensasse di vivere nell’epoca dei Lumi, ossia in un tempo luminoso e saggio, egli rispose: «Non ancora, ma in ogni caso abitiamo una terra in procinto di essere illuminata». È ancora questa la nostra vocazione? Dopo la morte di Dio, ovvero la fine della teocrazia che ha visto dipendere il temporale dallo spirituale, e il crollo delle utopie che hanno spinto il XX secolo nelle braccia dei totalitarismi, «su quale fondamento intellettuale e morale siamo disposti a costruire la nostra vita comune?» Per cercare una risposta alla domanda e comportarci in modo responsabile, suggerisce Tzvetan Todorov nel suo ultimo saggio appena tradotto per Garzanti (Lo spirito dell’Illuminismo, pp. 127, 11) abbiamo bisogno di un quadro concettuale sui cui fondare non soltanto i nostri discorsi, e ciò è abbastanza semplice, ma soprattutto il nostro agire. Da anni alla ricerca di un simile orizzonte di riferimento, Todorov dichiara di essersi spinto in direzione di una corrente di pensiero e di sensibilità «umanista», rappresentata nel nostro passato da taluni autori dell’Illuminismo europeo. E poiché quel grande movimento di pensiero fu un luogo di dibattito più che di consenso, all’interno del quale si potevano incrociare forme di espressione assai diverse tra loro, se non in contrasto, Todorov ci suggerisce di rileggere le idee dei Lumi attraverso tre nodi: l’autonomia, la finalità umana dei nostri atti e, infine, l’universalità. Quanto al primo tratto, emancipazione e autonomia sarebbero due momenti di uno stesso processo che spinge gli uomini a disporre di una completa libertà di conoscere, interrogare, criticare e mettere in dubbio ogni cosa, cosicché nessuna istituzione o dogma assumerà più su di sé il carattere della sacralità. In questo caso, non è l’autorità del passato che orienta la vita, ma piuttosto i nostri progetti per l’avvenire. Non un rifiuto delle religioni, ma una scelta in direzione di atteggiamenti di tolleranza e di difesa della libertà di coscienza. Al centro delle finalità e della volontà degli individui e della società non c’è l’anarchia (poiché Dio sembra scomparire), ma qualcosa di terreno, vale a dire gli uomini per se stessi. La ricerca della felicità sostituisce quella della salvezza; una sorta di umanesimo o se si preferisce di antropocentrismo che restituisce forza ai diritti umani. Il passo conseguente è la considerazione del carattere universale dell’umanità, proprio perché l’esercizio della libertà non può essere appannaggio di una sola società. Se tutti gli esseri umani possiedono un insieme di diritti identici, ne consegue che essi sono eguali proprio in quanto detentori di questi diritti; e la loro domanda di uguaglianza assume il carattere dell’universalità. Così l’essenza dell’essere sta anche nel voler conoscere gli altri e le diverse società, perché è dallo sguardo dell’altro che ogni uomo trae il sentimento della propria esistenza. M a come suggeriva Rousseau, che insisteva sul carattere della perfettibilità umana, proprio il bisogno di universalità può tradursi allo stesso modo in amore e in violenza, perché «il bene e il male discendono dalla stessa fonte originaria». Ne consegue, suggerisce Todorov, che «ogni speranza in un progresso lineare resta comunque vana». E tuttavia considerare che tutte le pratiche umane si equivalgano è pura illusione. Se una solidarietà «naturale» ci lega agli abitanti della terra, in caso di bisogno siamo chiamati a un dovere di assistenza, non a un diritto di invadere militarmente altri Paesi. Qualcosa di positivo per Todorov può comunque giungere dalle radici dell’identità dell’Europa che, proprio per il suo essere insieme una e molteplice, può essere in grado di sviluppare, più di ogni altro grande continente, la capacità di integrare le differenze senza farle scomparire.
«Corriere della sera» del 17 agosto 2007
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