di Paolo Di Stefano
A suo tempo, quasi un anno fa, quando uscì la nuova edizione del Dizionario delle Opere della Letteratura Italiana Einaudi, il Piccolo Fratello si precipitò a controllare se coincideva in tutto con le precedenti. Se cioè alla luce degli ultimi cinque-sei anni (quanti separavano la prima dall’ultima edizione) Alberto Asor Rosa, il direttore di quel Dizionario ottimo per precisione, chiarezza espositiva e completezza, aveva ritenuto che nel frattempo si fossero aggiunti nel nostro panorama letterario testi degni di entrare in un Pantheon che già conteneva 2250 schede. Il Piccolo Fratello rimase deluso. L’elenco si fermava purtroppo a metà anni ‘90: il Tabucchi di Sostiene Pereira (1994), il Del Giudice di Staccando l’ombra da terra (1994), la Di Lascia di Passaggio in ombra (uscito nel ‘95). Stando al Dizionario, nell’ultimo decennio non sarebbe stato prodotto nulla di rilevante nella nostra letteratura. Per dirne una, Pontiggia è rimasto fermo alla Grande sera e poco conta che nel 2002 sia uscito un romanzo straordinario come Nati due volte. E si potrebbe continuare con altri nomi e titoli. Peccato, pensò allora il Piccolo Fratello. Che aggiungeva alla sua riflessione un banalissimo calcolo matematico: 770 sono gli anni che separano gli albori della letteratura italiana (convenzionalmente fissati al 1226, anno del Cantico delle creature) dall’ultimo romanzo segnalato nel Dizionario. 2250:77 dà una media di circa 29 titoli per decennio. Tre all’anno, fino al ‘96. Da allora a oggi: zero. Come si spiega? Solo opportunismo editoriale? Oppure c’è qualcosa di più? E’vero che la collocazione di un autore e di un titolo in un Dizionario richiede tempo, distanza, sedimentazione. Ma fino a un certo punto. Nel compito di un critico letterario non è compreso il coraggio di mettere le mani anche nella contemporaneità che scorre sotto i suoi occhi? Stesso discorso per i testi di storiografia letteraria. Ci sono grandi opere che per definizione vanno aggiornate. Troppo facile dire che Dante Alighieri era un gigante. E che la Vita nuova è «il primo compatto libro di autentica poesia», come fa Ugo Dotti nella sua Storia della letteratura italiana, pubblicata la prima volta nel ‘91 da Laterza e ora riproposta da Carocci con pochi interventi e una nuova Premessa. Troppo facile. Il risultato più evidente è che il capitolo conclusivo, «Gli ultimi decenni del "secolo breve"», si chiude con un paragrafo su Calvino (con Palomar ricordato appena tra parentesi) curiosamente (e arbitrariamente) affiancato a Sciascia: «Su un piano minore possiamo accostare a Calvino Leonardo Sciascia (e con lui, su un piano ideologico diverso, Raffaele Crovi)». Che c’entra Crovi? Boh. Persino una fase la neoavanguardia viene liquidata in dieci righe, perché «non è certo questa la sede per poterne trattare». Se non se ne tratta in una storia letteraria, dovremmo aspettarci che se ne parli in un manuale di idraulica? In compenso, Zanzotto «ci appare l’ultimo poeta di cui bisogna fare cenno». Solo di passaggio si citano i nomi di Bertolucci, Fortini, Raboni. A differenza del Dizionario, dove non si fa nemmeno cenno all’eventualità di un aggiornamento, qui Dotti «veste» le lacune di altissime ragioni ideali e scientifiche. Primo: «le periodizzazioni imposte dall’attuale accademia hanno ormai fatto della cosiddetta "letteratura contemporanea" quasi una disciplina a sé». Secondo: «il sempre maggior dilagare della letteratura di mercato, pur sotto le più nobili etichette, rende sempre più difficile la distinzione tra opera di successo e autentica opera d’arte». Già, ma allora perché esistono le storie letterarie, se non sono proiettate nel presente? A che servirebbe raccontare la storia del Muro di Berlino se alla fine non si dice che nel 1989 è caduto?
«Corriere della Sera» del 7 agosto 2007
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