Il libro di Giampaolo Pansa
di Dino Messina
di Dino Messina
I sequestrati venivano portati in un casolare isolato, possibilmente abitato da un compagno o da contadini che avevano avuto un famigliare ucciso dai fascisti. A loro toccava di scavare la fossa e giurare, pena una feroce ritorsione, il più assoluto silenzio. A qualche rapito, invece, andò bene. Sborsando somme di danaro ingenti, il notaio, il possidente, l’industriale molto facoltoso avevano salva la vita. E nel paese si vedeva qualcuno diventare ricco di colpo. A qualcuno toccò invece di essere ucciso anche se aveva pagato, anzi se era stato un convinto sostenitore della Resistenza. È quanto accadde ad Alberto Morselli, quarantasettenne proprietario della Bassa modenese e a sua sorella Tina. Morselli aveva versato una notevole somma al Cln provinciale di Modena per una sincera convinzione antifascista. I guai arrivarono quando denunciò che parte dei soldi era rimasto nelle tasche dei partigiani locali. Alberto e Tina vennero uccisi. Tina, prima di essere finita, fu stuprata. Sono storie che leggiamo nel nuovo libro di Giampaolo Pansa, I gendarmi della memoria - Chi imprigiona la verità sulla guerra civile, appena uscito dalla Sperling & Kupfer (pagine 504, 19). Questi esempi, tuttavia, non traggano in inganno: benché alcuni racconti completino e siano il seguito di quelli contenuti negli altri bestseller del giornalista sulla guerra civile italiana, Il sangue dei vinti, Prigionieri del silenzio, Sconosciuto 1945, La grande bugia, Pansa questa volta ha scritto un saggio diverso dai precedenti, dove gli episodi sulla parte oscurata della guerra civile sono ancor più in secondo piano rispetto alla discussione sull’uso politico della memoria. L’autore racconta da straordinario cronista le aggressioni subite l’anno scorso quando uscì La grande bugia. Il 16 ottobre 2006 in una libreria di Reggio Emilia una dozzina di «Antifascisti militanti» inneggianti alla strage di Schio e «senza rimorso», come diceva un loro cartello, per i delitti del Triangolo Rosso, inaugurò una serie di aggressioni che costrinsero Pansa ad annullare quattordici presentazioni. Ma i contestatori furono anche beffati: fecero aumentare l’attenzione dei media sul libro che volevano censurare, contribuendo così a un successo straordinario. La discussione che si accese a sinistra, al di là della solidarietà subito espressa dal Presidente Giorgio Napolitano, hanno dato l’occasione a Pansa per riflettere su un fenomeno molto italiano. Esiste una parte della sinistra che senz’alcun titolo se non quello del pregiudizio ideologico si è arrogata il diritto di stabilire quel che si può raccontare e quel che va taciuto della nostra storia nazionale. Ancora oggi, a più di sessant’anni dai fatti. Cosicché se un giornalista e storico come Pansa, che ha sempre creduto nei valori della Resistenza, tanto da scrivere in anni lontani per Laterza un saggio importante come Guerra partigiana tra Genova e il Po, decide di raccontare l’altro lato della guerra civile, quella dei saloini, è accusato di revisionismo, addirittura di negazionismo. E c’è qualcuno che gli contesta anche l’apologia di fascismo. Così uno scrittore abituato a fare liberamente il suo mestiere si trova di colpo prigioniero dei «gendarmi della memoria». Fortunatamente Pansa ha la capacità di dipingere con ironia questa razza di nuovi censori e anima il suo saggio di una serie di figure che sembrano appena uscite dal suo Bestiario dell’Espresso. Accanto ai «Senzarimorso» di Reggio Emilia ecco comparire «L’Uomo di Cuneo» Giorgio Bocca, che aveva proposto sanzioni penali contro Pansa «apologeta di fascismo»; «Il Cosacco» Bruno Gravagnuolo, focoso polemista dell’Unità; «Il professor Basta» Angelo D’Orsi che aveva accusato Pansa di «rovescismo»; «Il Piotta» Paolo Cento che nell’88 aveva cercato di bloccare una lezione di Renzo De Felice all’Università di Roma e che diciott’anni dopo organizzava un convegno in suo onore. E poi ci sono «Kojak» Sandro Curzi e «Il Pelatone» europarlamentare comunista Marco Rizzo, «Il Parolaio Rosso» Fausto Bertinotti, presidente della Camera, e «L’esorcista» storico Nicola Tranfaglia. Un’ampia famiglia rossa, composita e pronta alla rissa. Anche con i parenti stretti. Ci sarebbe quasi da ridere se la discussione non riguardasse la mattanza che a guerra finita costò la vita a circa ventimila italiani che avevano aderito alla Rsi. Vittime della vendetta personale, dell’odio ideologico o dell’errore. E se da questa incapacità a guardare in maniera serena al nostro passato, a riconoscere i propri torti, come l’uccisione di 776 donne nel solo Piemonte, non derivasse l’impossibilità di affrontare i problemi del presente. Non è credibile, avverte Pansa, nessuna volontà di riforma dei tanti mali italiani se prima la sinistra «non rilegge con onestà l’intera storia» della sua parte politica nel Novecento.«Corriere della sera» del 7 ottobre 2007
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