L’inventore della Optical Art viene celebrato con una retrospettiva a 10 anni dalla morte
di Francesca Bonazzoli
Nel mondo occidentale l’arte è quasi sempre stata valutata come l’abilità di creare un’illusione visiva: già le fonti greche narrano con ammirazione la storia del pittore Zeusi che, nel V secolo a.C., avrebbe dipinto un grappolo d’uva così simile al vero che persino gli uccelli tentavano di beccarlo. L’idea che la storia dell’arte fosse un progresso tecnico verso l’imitazione perfetta rimase radicata, tranne durante la parentesi altomedievale, fino al Romanticismo, quando prese il sopravvento il concetto dell’arte come espressione. Sul tema, i dibattiti di artisti e teorici sono stati infiniti, ma i poli della questione restavano essenzialmente fra mimesi e idea, ovvero se l’artista dovesse limitarsi a copiare la natura o dovesse migliorala e correggerne le imperfezioni secondo le capacità intellettive proprie dell’uomo. Del resto, il mito di Pigmalione (re di Cipro che chiese a Venere di rendere viva la statua di donna che aveva scolpito e di cui si era innamorato) dimostra che l’artista, ancor più che imitare la natura, ha sempre cercato di gareggiare con la creazione stessa e a questo scopo ha studiato l’anatomia, la prospettiva, la luce, la fisiognomica, il movimento dei corpi. L’illusione della profondità dello spazio fu affrontata in modo empirico fin dai romani: nelle ville di tutto l’impero, per esempio, si realizzavano mosaici pavimentali con decori geometrici che fingevano le tre dimensioni giocando sulle differenze tonali delle tessere in primo piano e sul fondo. Nel ‘400 Luca Pacioli e Piero della Francesca riuscirono finalmente a codificare i rapporti geometrici tra fondo e figure e la scoperta della prospettiva matematica fu letta come uno dei progressi fondamentali della storia dell’arte. Albrecht Dürer scese a piedi da Norimberga per venire a conoscere questo meraviglioso segreto degli italiani. Una novità talmente entusiasmante che la pittura del Rinascimento diventò tutta un’esibizione di virtuosismo prospettico: non si contano i portici, le finestre, i davanzali, i pavimenti a losanghe che permettono a chi guarda di valutare il talento illusionistico del pittore. A questo scopo sembrò diventato indispensabile dipingere in qualsiasi quadro anche il mazzocchio, una specie di cerchio con un tessuto quadrettato a due colori. Tali pezzi di bravura suscitavano ammirazione, come l’acuto di un cantante che strappa l’applauso. Lo stesso scopo per cui Hans Holbein, nel quadro «Gli ambasciatori» alla National Gallery di Londra, esibisce in primissimo piano una spettacolare anamorfosi: ovvero un teschio deformato prospetticamente in modo tale che, ad uno sguardo frontale, l’osservatore non scorge che una macchia, ma se si sposta nell’esatto punto di vista calcolato dall’artista, vede svelato il teschio. La maestria illusionistica si esercitava anche nella riproduzione di un tessuto, di una pelliccia, della consistenza rigida del taffettà o della morbidezza del velluto. Oppure nella trasparenza del vetro di un bicchiere, nella lucentezza di una perla o nella rotondità di un liuto. Ad eccellere nelle nature morte sono stati soprattutto i pittori fiamminghi i quali spesso dipingevano nella loro composizione anche una mosca, per sfidare l’osservatore a scacciarla e attestare così la propria bravura. Ma anche gli architetti si sono misurati con l’illusione: in mancanza di uno spazio sufficiente, Bramante non ha esitato a realizzare una finta abside in Santa Maria presso San Satiro, a Milano, costruendola con una prospettiva pittorica dipinta che inganna l’occhio. Anche Palladio risolse un analogo problema a Vicenza, dotando l’angusta scena del teatro Olimpico di finte strade in vertiginose prospettive. Gli artisti finirono insomma per dominare così bene l’imitazione della natura attraverso la finzione che alzarono le loro ambizioni: dal semplice inganno dell’occhio, la loro ricerca si spostò alla psicologia della percezione. I primi a scompaginare le carte furono gli Impressionisti i quali affermarono che prospettiva e colori, su cui si era basata fino ad allora la pittura, nulla avevano a che fare con la visione vera. I futuristi, poi, chiesero all’arte anche il movimento, ma il loro tentativo restò ancora nell’ambito della rappresentazione, per esempio di un treno o di una bambina che corre. Fu l’arte cinetica a muovere davvero le opere attraverso lo spostamento d’aria o grazie a meccanismi o motori. A sua volta l’Op art, e le sue opere dipinte in modo che danno l’impressione di espandersi e contrarsi, lo fece in modo ancora più sottile: lo spazio in cui l’immagine sembra muoversi è illusorio, ma l’illusione è giunta al massimo grado, conquistando il movimento. E dunque eccoci di nuovo all’antico mito di Pigmalione, al sogno di ogni artista: infondere la vita alle proprie creazioni.
«Corriere della sera» del 3 ottobre 2007
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