di Lisa Allardice
Doris Lessing a volte può essere scostante. Ma stamattina, come ci si può aspettare da una signora ottantottenne che ha appena ricevuto il più alto riconoscimento letterario, è tutta sorrisi e baci. Le scale del sua malconcia casa di Hampstead, area nord di Londra, sono coperte di mazzi di fiori. Il soggiorno al piano di sopra, l'ultima volta piuttosto tetro, pieno di pile di libri e riviste, di quadri opprimenti, oggi è rallegrato da altri fiori, tutti in varie sfumature di arancione e rosso. «A quanto pare la gente mi associa al tramonto», dice, aggiungendo che il suo gatto è di cattivo umore perché con tutto questo trambusto non riceve abbastanza attenzioni. Il telefono squilla in continuazione con un suono penetrante (la Lessing sta diventando un po' sorda), per le congratulazioni. La telefonata più bella, dice con malcelata gioia, è stata quella del suo eroe Gabriel García Márquez. «Sono stata molto commossa dalle persone di ogni genere che si sono congratulate con me».
Il candidato favorito di quest'anno, Philip Roth (lo davano 7 a 2), un grande vecchio della letteratura, estremamente prolifico, inquieto e controverso, famoso per aver scritto di masturbazione, politica e nevrosi maschili, è stato battuto da una outsider (le sue probabilità erano 50 a 1), una grande vecchia della letteratura, estremamente prolifica, inquieta, controversa, nota per aver scritto di mestruazioni, politica e nevrosi femminili. La Lessing è solo l'undicesima donna, in 104 anni, ad aver vinto il Nobel, come hanno notato tutti i giornali. Si tratta allora di un trionfo per le donne scrittrici? «Odio parlare di letteratura in termini di uomini e donne. Non serve a nulla». Ma le dispiace molto che Virginia Woolf non abbia mai avuto il premio.
Una delle ragioni per cui non sorprende che sia stata scelta è che Doris Lessing è soprattutto una scrittrice di idee e di idealismi. Post-colonialismo, comunismo, femminismo, misticismo, sono pochi gli «ismi» nel XX secolo a cui non sia stata più o meno consapevolmente associata. «La gente — dice facendo un gesto vago — ama mettere etichette. Questo facilita le cose».
Il critico letterario Harold Bloom ha definito la decisione dell'accademia «pura correttezza politica ». «Harold chi?». «Bloom». «Oh, Harold Bloom. Che cosa intende dire? Forse ha pensato che fosse ora di dare il Nobel a una donna».
Perché pensa di avere ricevuto il premio ora, dopo essere stata tra i finalisti per quarant'anni? «Probabilmente perché ho scritto in tante maniere diverse, pensando sempre che fosse un mio diritto. Ho assommato una lista notevole di generi diversi ».
Sarebbe stata delusa se non avesse vinto il Nobel? «No, la cosa è andata avanti per anni, e onestamente era una gran noia. Ho vinto tutti i premi europei. Questo è il più famoso, ma non significa che sia il migliore dal punto di vista letterario».
Una volta le fu proposta la nomina a «Dame of the British Empire», ma si dice abbia rifiutato affermando che era «un po' una farsa». Ha veramente detto una cosa simile? «Sì, l'ho detta», risponde, dondolandosi all'indietro su un divano tanto basso che la fa sembrare quasi seduta per terra. «Beh, anzitutto non c'è un impero britannico, sembra che nessuno se ne sia accorto. Mi hanno chiesto poi se volevo il titolo di "Companion of Literature". Companion di chi o di che cosa? Andiamo... ».
È senza dubbio la rappresentante storica del femminismo britannico — un marchio che ha cercato di scrollarsi di dosso da quando, nel 1962,
The Golden Notebook è stato proclamato una "bibbia femminista". Considera veramente, come è stato detto, questo romanzo il suo "albatro"? «Questo libro ha un certo peso, devo riconoscerlo. Continua a spuntar fuori qua e là in un altro Paese e devo ammettere che ha qualcosa, carattere, vitalità».
Un altro premio Nobel, J.M. Coetzee, l'ha definita «una delle grandi narratrici visionarie del nostro tempo». E spesso non ci si accorge che è stata una pioniera nella forma, oltre che nelle idee. La sua narrativa passa dal realismo umanista dei primi romanzi al fantastico del suo periodo intermedio. Quello di cui è più fiera — ha sempre il gusto per la trasgressione — è in particolare la serie di fantascienza Canopus, che ha lasciato perplessi molti critici. «Credo che tra i miei scritti migliori vi siano i libri su Shikasta. Sono esperimenti. Il problema è che non bisogna mai sottovalutare il conservatorismo dei letterati. Quando The Golden Notebook
è uscito, nessuno ha notato che usavo una forma piuttosto interessante, erano troppo presi dal fatto che fossi contro gli uomini, una rompiscatole».
Sembra divertirsi ad attaccare il femminismo, parlando di determinismo biologico e di intrinseca differenza tra i sessi, senza timore di apparire politicamente poco corretta. Il suo ultimo romanzo,
The Cleft («La fessura»), una distopia fantastica che raffigura il sesso femminile — la "fessura" del titolo — come svagato e pigro, ma abile nei lavori domestici, e gli uomini come "canaglie" curiose e avventurose, ha lasciato alcune critiche interdette. Come nel caso di W.H. Auden, i bei ritratti fatti a Doris Lessing nella vecchiaia hanno reso il suo volto uno dei più emblematici della letteratura. Il suo viso segnato dalle rughe del tempo e della sua espressione, gli occhi distanziati, dà l'impressione di aver passato tutta la vita a scrutare le distese africane, ed in un certo senso è proprio quel che ha continuato a fare da quando, nel 1950, ha lasciato Johannesburg, con il suo primo manoscritto nella valigia.
La vita di Doris Lessing dovrebbe essere nota ai suoi lettori, anche perché ha passato molti anni a raccontarla. Nelle sue memorie descrive con un'intimità quasi oscena il paesaggio, i suoni e soprattutto gli odori della terra africana che l'ha nutrita e formata. La sua infanzia — divisa tra una turbolenta vita all'aperto e un'intensa vita interiore — era dominata da una madre imperiosa, con cui ha litigato «continuamente, ma malvolentieri » fin quando è morta. Anche se le figure materne hanno un ruolo importante nella sua narrativa, solo di recente la Lessing è riuscita a scrivere della madre in maniera diretta. L'ha perdonata? «L'ho capita, se questo può dirsi perdono».
Il suo ultimo romanzo — che dice sarà forse l'ultimo e che ha da poco consegnato al suo agente — è intitolato Alfred and Emily, dal nome dei suoi genitori. Li ha sempre descritti come segnati dalla Prima guerra mondiale (suo padre fisicamente, aveva perso una gamba, sua madre emotivamente). Nella prima metà del romanzo ha «abolito la Prima guerra mondiale per loro, così hanno una vita ordinaria e senza scosse». La seconda metà del libro narra quel che accade dopo il loro trasferimento nella Rhodesia del sud. «Di fatto è un libro contro la guerra, senza che ne avessi l'intenzione». È stata influenzata in questo dagli eventi attuali? «No, non proprio. Odio la guerra, naturalmente, penso che molti ragazzi non abbiano idea di che cosa sia stata la guerra. Anzi temo che i ragazzi ne siano affascinati».
Ha detto che gli inglesi sono più bravi nei «romanzi brevi, circoscritti, che riguardino, preferibilmente, le sfaccettature dei comportamenti delle diverse classi sociali». «È vero. Sono bravissimi in questo». Pensa che la narrativa contemporanea debba occuparsi maggiormente di politica? «No, non ho mai pensato che un romanzo dovesse essere un manifesto politico: tra le mie opere non c'è un romanzo che sia un manifesto politico».
Allora, quale pensa sia la sua maggior conquista? «Quel che ho fatto è continuare a scrivere nella buona e nella cattiva sorte. Non ho mai mollato. A volte è stato molto difficile, ho avuto anche un figlio».
Uno degli aspetti più discussi della sua vita è che, come Muriel Spark (che viveva vicina, in Rhodesia in quel periodo, senza cha Doris Lessing la conoscesse), ha lasciato i figli. Questo le è stato fatto pesare, soprattutto perché non ha voluto mostrarsene pentita. «Il figlio di Muriel Spark è stato allevato dai nonni, e i miei bambini da una seconda moglie. Non si può dire che siano stati abbandonati sui gradini di una casa». Non si è sentita terribilmente in colpa? «No, perché so che cosa mi sarebbe successo se non me ne fossi andata. Avrei avuto un esaurimento nervoso e sarei diventata alcolista. Anche se è stato terribile, ho fatto bene a farlo».
Ma per una triste ironia Doris Lessing ha passato gli ultimi anni a curare Peter, il figlio ormai maturo avuto in seconde nozze, che vive nell'appartamento attiguo. Peter, molto malato, è stato ricoverato in ospedale un paio di volte, e per lei è diventato sempre più difficile trovare tempo ed energia per scrivere. Sono molti gli autori che sostengono di scrivere solo per se stessi, ma nel caso di Doris Lessing si sente che questo è vero. Scrive di quel che le interessa in un certo momento, e se ai lettori non piace devono farsene una ragione . E quelli che lo fanno, non solo la amano, la adorano. «È meraviglioso» dice. «Ho incontrato ragazze che mi dicono: mia madre, o mia nonna, mi hanno raccomandato di leggerla».
Copyright: Guardian News & Media 2007 (Traduzione di Maria Sepa)
«Corriere della sera» del 17 ottobre 2007
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