Mosca: gli incontri di Strada con i superstiti della mitica avanguardia russa
di Vittorio Strada
Krucenych e l’età d’oro di manifesti e scandali artistico-letterari
A Mosca, alla fine degli anni Cinquanta, nell’atmosfera irreale di una destalinizzazione iniziata da uno stalinista non pentito, ma avveduto, capace di capire che per conservare spesso bisogna cambiare, Nikita Chrusciov, in un metaforico «disgelo» che alternava rialzi di temperatura a improvvise ricadute, rendendo il ghiaccio del regime comunista una poltiglia sdrucciolevole, era possibile anche a uno straniero, curioso e avventuroso, prendere contatti con i superstiti della mitica «avanguardia» degli anni Venti, e, se si meritava la loro fiducia, frequentarli. Il più straordinario di costoro era Aleksej Krucenych, un nome che non dice quasi nulla al pubblico generico, al cui orecchio sono pervenuti i giustamente più clamorosi Velemir Chlebnikov o Vladimir Majakovskij, ma, per chi conosca gli annali del Futurismo russo, Krucenych è stato il più emblematico rappresentante della tendenza futurista più estrema e pura, il «linguaggio transmentale» (zaum’), una sorta di astrattismo verbale in cui costruzioni foniche nuove davano «libertà alla fantasia creativa, senza offenderla con alcunché di concreto», come si legge in una dichiarazione programmatica firmata anche da Krucenych. Per venire al Krucenych anni 50-60, si immagini un vecchio signore, povero e trasandato, ma con un piglio fermo che tradiva l’antico fanatico «avanguardista» rimasto spiritualmente legato all’età d’oro dei manifesti e degli scandali artistico-letterari, ingrigito però da decenni di logorante esistenza sovietica, e ridotto a vivere, come quasi tutti, in una komunalka, cioè in un appartamento collettivo in cui ogni inquilino, singolo o con famiglia, occupava una stanza, mentre cucina e servizio erano in comune per tutti. Era in questa sua stanza che andavo spesso a trovarlo, affascinato dai suoi racconti e dalla sua stessa presenza di testimone di un’epoca leggendaria, oltre che dal desiderio di collezionare i preziosi testi del Futurismo russo, che solo da lui si potevano trovare. La sua stanza, in realtà, era un antro cartaceo, interamente e caoticamente foderata di libri. Si camminava su fogli affastellati di carta, un tempo parti di qualche edizione, mentre gli armadi e un baule traboccavano di pubblicazioni, manoscritti, lettere, fotografie che avrebbero fatto ricco e felice qualsiasi archivio: erano infatti materiali riferentesi a Marina Cvetaeva, Anna Achmatova, Boris Pasternak, oltre che al Futurismo russo, documenti che poi, alla morte di Krucenych, nel 1968, passarono tutti, credo, a un archivio letterario. Un letto, una branda, era l’unico oggetto non libresco, anche se sotto si intravvedevano distese di carte. Da questo «deposito», Krucenych prendeva ogni tanto, secondo un suo estro, un’edizione preziosa dell’avanguardia e me la donava (in verità in cambio di libri occidentali d’arte, ma certo non equivalenti), permettendomi di completare la mia raccolta dei manifesti futuristi russi, resi ancora più preziosi da certe sue annotazioni. Ma era lui stesso, il futurista invecchiato e sopravvissuto, anzi ancora straordinariamente vivo, ad essere il reperto archeologico più eccezionale di quel «museo», lui con le sue manie alimentari, le sue scatole di dolci al miele che mi offriva e, nella cucina frequentata dalle sciamannate coabitanti delle altre stanze, le pappe fatte con le farine più strane che mi offriva di dividere con lui, senza che io osassi accettare l’invito. E poi i suoi ricordi e la sua recitazione del verso «transmentale» più famoso, il suo «insensato» Dyr bul scil, espressione che sulle sue labbra aveva qualcosa di sciamanico. Con Lilja Brik gli incontri furono, invece, occasionali, provocati da un mio articolo in cui analizzavo in modo nuovo, fuori delle leggende del «realismo socialista» sovietico, i rapporti fra Majakovskij e Gor’kij. Fu lei a invitarmi nella sua casa che mostrava i segni sia della sua vita capricciosa di donna di vari mariti e amanti, tra i quali ultimi il più illustre era stato Vladimir Majakovskij, sia di un certo benessere «piccolo borghese» sovietico. C’era una nota di cinismo candido e perverso nel suo modo di parlare e ricordare. Durante una delle mie visite portai il discorso su un episodio della vita di Majakovskij che mi incuriosiva: l’incontro fra lui e Marinetti, a Parigi nel giugno 1925. Già il viaggio di Marinetti in Russia alla vigilia della Prima guerra mondiale era stato un episodio assai significativo nella storia dei «due» Futurismi: italiano e russo. La Brik si divertì quando le dissi che in un raro manifestino futurista, intitolato Marinetti in Russia, che avevo trovato a Milano, si leggevano frasi come questa: «Marinetti ha voluto dimostrare che anche nel bere gli italiani sanno essere, quando occorre, primi, e tranquillamente ha vuotate, l’una dopo l’altra, quattro bottiglie di champagne. Dopo di che riprese a declamare». Forse era una smargiassata, ma curiosa per la gara nazionalistica su un terreno, quello del bere, sul quale i russi non scherzano. A Parigi, nel libretto d’appunti di Majakovskij, Marinetti scrisse: «À mon cher Mayakovsky et la grande Russie énergique et optimiste touts mes souhaits futuristes». E nella pagina seguente: «Au grand esprit novateur qui anime la Russie: que’il ne s’arrête pas! Notre âme futuriste italienne ne s’arrêtera pas!». Citò queste parole Vasilij Katanjan, l’allora consorte di Lilja, cronista attento della vita di Majakovskij. Io azzardai che Marinetti era diventato fascista, così come Majakovskij comunista (anche se non iscritto) e che questo doveva significare qualcosa per il Futurismo, anzi per i «due» futurismi. La Brik replicò semplicemente: «Erano due rivoluzionari». Avrei voluto aggiungere che l’atto rivoluzionario estremo Majakovskij lo aveva compiuto con un suicidio (1930) che aveva sconvolto tutti e ancor oggi chiede di essere capito. Anche in questo, il Futurismo russo fu davvero diverso da quello italiano. Diversa, per tragica grandezza, fu la storia dei due Paesi, nel secolo scorso, anche nel rapporto fra arte e rivoluzione.
«Corriere della Sera» del 13 agosto 2007
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