150 anni fa il capolavoro di Baudelaire fu processato per «oltraggio alla morale». L'autore vinse, ma dovette eliminare 6 poesie
di Alessandro Zaccuri
Poco prima la stessa accusa era stata mossa a «Madame Bovary». Ma se Flaubert si ribellò, Charles lasciò correre: «Ogni letteratura deriva dal peccato», diceva
Nichilista, ammirato da Sartre, lo scrittore non rinunciò mai a presentarsi da moralista paradossale: «Sono fiero di un testo che esprime l’orrore del Male»
Prendere brutti voti a scuola, farsi cacciare dal collegio, spendere troppi soldi, chiedere prestiti, pretendere anticipi, pubblicare poesie sconvenienti, trascurare di scrivere alla mamma. E promettere, ogni volta, di non farlo più. Gli altri non ci credono, ma lui, Charles Baudelaire, è abilissimo nel persuadere se stesso, pregustando il successo di libri che non scriverà mai, immaginandosi già assiso tra gli Immortali dell'Académie, convincendosi che il Belgio gli darà finalmente i riconoscimenti che la Francia gli ha negato. Nel frattempo, però, mentre si consuma tra un progetto e l'altro, il gran libro Baudelaire lo scrive davvero. I fiori del male, certo, uscito in volume il 21 giugno 1857 e processato per oltraggio alla morale il 20 agosto dello stesso anno. Pochi mesi prima, in gennaio, sul banco degli imputati era finito un altro capolavoro, Madame Bovary di Gustave Flaubert. Due processi con lo stesso pubblico ministero, Ernest Pinard, che esce sconfitto dal duello con Flaubert, ma riesce a ottenere che dall'edizione francese dei Fiori del male vengano espunte sei poesie «dal profumo vertiginoso» e quindi, con ogni probabilità, malsano. In aula Flaubert si batte con foga (il famoso Madame Bovary c'est moi, ricordate?), Baudelaire invece lascia fare, come se in fondo ammettesse che il buon Pinard ha la sua parte di ragione. «Ogni letteratura deriva dal peccato», scriverà infatti in una lettera del 1860, in uno degli innumerevoli frammenti che compongono l'altro suo grande libro, l'epistolario convulso e drammatico e commovente da cui ora Cinzia Bigliosi Franck ha tratto l'ampia scelta pubblicata da Fazi con il titolo Il vulcano malato (pp. XXIV+560, euro 24,50). Sono queste le pagine in cui, fin dall'adolescenza, Baudelaire depreca se stesso e meticolosamente promette di emendarsi, specie quando si rivolge alla sua interlocutrice prediletta, la signora Aupick, ossia la madre che, rimasta vedova, si era risposata con un alto ufficiale, il futuro generale Ja cques Aupick. Allo stesso modo in cui Monaldo Leopardi è il destinatario dell'ultima lettera del figlio Giacomo, poche ore prima di essere colpito dalla crisi che lo porterà alla morte Baudelaire si rivolge alla madre dal suo esilio di Bruxelles. È il 30 marzo 1866. Dice che non può muoversi, che è pieno di debiti, che ha moltissimo lavoro da sbrigare.Il vulcano malato può essere letto come uno straordinario romanzo familiare, a patto però di non dimenticare che l'autore è uno dei massimi poeti della modernità, colui che ha saputo portare «l'infinito nelle strade», secondo la felice formula che Antonio Prete ha posto come sottotitolo del suo I fiori di Baudelaire (Donzelli, pp. XIV+178, euro 14), un saggio che si pone come ideale completamento al lavoro di traduzione compiuto dallo stesso Prete. Un libro utile non soltanto perché ricostruisce il significato e il destino delle famigerate poesie condannate, ma anche perché indaga in modo puntuale l'aspetto che, di volta in volta, viene considerato il più affascinante o morboso dell'opera di Baudelaire, ovvero il ricorso quasi istintivo a immagini e forme religiose, dalle apparizioni angeliche fino alla consapevole ripresa dello schema litanico. Ma basta imitare l'andamento della preghiera per pregare davvero? Baudelaire sembrava esserne sicuro, se perfino nella lettera indirizzata al ministro Fould dopo il sequestro dei Fiori del male non rinuncia a presentarsi come un paradossale moralista: «Io non mi sento affatto colpevole - proclama -. Al contrario, mi sento molto fiero di aver prodotto un libro che esprime solamente il terrore e l'orrore del Male». Si tratta dello stesso nodo indagato da Alessandro Piperno - proprio lui, il narratore best seller di Con le peggiori intenzioni - ne Il demone reazionario (Gaffi, pp. 436, euro 15), un ampio studio che prende le mosse da una delle più monografie baudelairiane mai scritte, quella pubblicata da Jean-Paul Sartre nel 1947. Sartre ammira Baudelaire senza amarlo, anzi il poeta «gli fa senso», come provocatoriamente sostiene Piperno. Forse perché i due si somigliano troppo, sono entrambi nichilisti assoluti che cercano in un'ideologia (reazionaria per Baudelaire, rivoluzionaria per Sartre) il rimedio al disagio che abita le loro opere. Per trovare un punto di equilibrio Piperno suggerisce di rivolgersi al Dostoevskij dei Demoni, il romanzo in cui la questione di Dio e del nulla viene posta nei termini più definitivi e radicali. Forse è proprio questo che Baudelaire intende quando afferma che la letteratura nasce dal peccato: soltanto la letteratura, se è autentica, può denunciare e implicitamente condannare il peccato. Anche quando, come accade nel suo caso, il peccatore è il poeta stesso.
«Avvenire» del 15 agosto 2007
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