di Franco Venturini
Così come non si può esportare la democrazia in punta di baionetta, non è purtroppo possibile imporre a uno Stato sovrano il rispetto dei diritti umani. Più che mai se questo Stato ha le dimensioni, il peso economico e l’importanza strategica della Repubblica popolare cinese. Ma è giusto far discendere da questa presa d’atto una «realistica» rassegnazione talvolta troppo simile alla complicità? Non dovrebbero piuttosto le democrazie occidentali, turbate e confuse in un mondo instabile, riaffermare e difendere i loro valori identitari? Le Olimpiadi cinesi del 2008 riaprono un tormento antico. Non fu sbagliato, a nostro avviso, assegnare i Giochi alla Cina pur conoscendo le sue manchevolezze. Senza bisogno di evocare il ping-pong che nel ‘72 facilitò l’incontro tra Nixon e Mao, è noto che gli eventi sportivi possono essere un formidabile veicolo di progresso politico. Le Olimpiadi, in particolare, mobilitano milioni di persone, costringono il Paese ospitante ad aprirsi verso l’esterno e lo proiettano sotto gli occhi (e le telecamere) del mondo intero. Una speranza di concessioni libertarie all’interno era dunque lecita. Ma la Cina - e qui dissentiamo da quanto ha scritto Enzo Bettiza sulla Stampa di ieri - sembra voler pagare diversamente il suo biglietto olimpico. Pechino diventa conciliante sul Darfur e usa il suo potere di convincimento nei confronti del governo sudanese, mentre all’interno le avvisaglie sono di immutata repressione. Come se i diritti umani potessero essere difesi per procura, lontano da casa e tanto per accontentare gli scocciatori occidentali. Non si può certo disconoscere che la Cina di oggi sia migliore di quella del passato, e non si può escludere che la sua transizione, per ora soltanto economica, possa un giorno investire la sfera politica e sociale. Ma se vuole incoraggiare una simile prospettiva, e soprattutto se vuole tener fede ai suoi valori fondanti, l’errore più grave per l’Occidente sarebbe quello di ritagliarsi un ruolo da spettatore silenzioso. Perché quando la Cina dice «questo è il nostro sistema» (così come quando Putin difende la sua «democrazia sovrana», o Ahmadinejad e Chavez chiudono media fastidiosi), l’Occidente deve essere in grado di protestare ad alta voce ricordando i propri valori. Si tratterà di proteste inefficaci? Forse. Ma senza una simile affermazione identitaria diventerebbe impossibile contrapporre alle sovranità nazionali di altri la sovranità ideale che è alla base della comunità liberaldemocratica, sparirebbe nel tempo il senso di appartenenza che ancora unisce uno scosso Occidente, e non si potrebbe capire quanto profondo sia il danno che gli occidentali recano alla propria causa quando violano essi stessi (l’esempio di Abu Ghraib valga per tutti) i codici di comportamento che affermano di difendere. Siamo perciò noi, e dovrebbero essere i nostri governi, i primi interessati a non tacere. Avere una identità, soprattutto in questi tempi di globalizzazione omologante, è una sfida: agli interessi economici, al bon ton dei rapporti internazionali, talvolta anche alle priorità diverse tra alleati. Ma rinunciare ad averla e scegliere un realismo silente non aiuta gli altri e non aiuta noi occidentali, perennemente in sospeso tra politica dei diritti umani e politica di potenza. Si facciano, ma si facciano se occorre nel frastuono delle proteste, le Olimpiadi di Pechino. Senza dimenticare che in pista è atteso un protagonista cruciale: il popolo cinese.
«Corriere della Sera» del 9 agosto 2007
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