di Giovanni De Luna
La legge sulla Memoria storica, che il parlamento spagnolo dovrebbe approvare entro fine ottobre, stabilisce che tutti i simboli della dittatura franchista siano rimossi dagli spazi pubblici, vie, piazze, facciate delle chiese. La legge si inserisce in un contesto europeo particolarmente attento ai temi della memoria storica e del suo rapporto con la politica e con lo Stato. Quella che si definisce memoria collettiva, infatti, più che il risultato di un ricordo deriva da un patto per cui ci si accorda su ciò che è importante trasmettere alle generazioni future. I confini che circoscrivono questo patto sono fluidi, cambiano a seconda delle fasi che scandiscono il corso politico degli eventi; quando poi a fissarli interviene lo Stato, allora la memoria collettiva diventa «ufficiale» e a stabilire cosa tenere e cosa buttare della storia di un Paese sono le cosidette leggi memoriali. Questo intreccio tra storia, memoria, politica e Stato ha dei risvolti bizzarri nell'Europa oggi. Tipico è il caso della Russia di Putin.
Negli anni dello stalinismo, l'imposizione di una storia ufficiale era stata accompagnata da una violenta mutilazione della memoria. Ricordare diventò un crimine, il passato pericoloso: per paura si strapparono le pagine delle enciclopedie. Così, il contraccolpo della fine dell'Urss fu fragoroso, provocando prima una sorta di liberalizzazione selvaggia della memoria, poi il tentativo del nuovo regime di costruire una nuova storia ufficiale, mirata alla propria legittimazione: una nuova vulgata che, però, di quella sovietica ha ripreso gli schemi e i metodi. Addirittura è come se fosse in atto una cauta rivalutazione di Stalin: nel 1990 era considerato il personaggio più positivo della storia del Paese dall'8% degli intervistati; nel 1997 era già il 15% a condividere questa opinione; oggi si tende a vedere in lui non tanto il dittatore quanto il protagonista della «guerra patriottica» contro la Germania di Hitler. Insomma, più il nuovo Stato intensifica gli sforzi per la propria monumentalizzazione, più sembra produrre un contraddittorio ritorno al passato in chiave nazionalistica.
Il corto circuito tra Politica e Memoria, tra Stato e Storia si ritrova però anche nei paesi che non hanno alle spalle dittature e totalitarismi. Nella primavera scorsa in Inghilterra ha fatto molto scalpore un rapporto commissionato dal Ministero dell'Istruzione alla Historical Association. Lo studio ha rilevato che alcune scuole britanniche evitano di far lezione ai loro allievi sullo sterminio sistematico degli ebrei, giudicando l'Olocausto «una storia emotiva e controversa». In Francia l'abuso di leggi memoriali ha provocato polemiche furibonde. Nel 2005 ci fu la legge del 23 febbraio che sollecitava i manuali di storia adottati nelle scuole a dare un giudizio positivo sulla colonizzazione francese nell'Africa del Nord. Il provvedimento aveva almeno tre precedenti molto significativi: la legge Gayssot (13 luglio 1990) contro il negazionismo, quella del 29 gennaio 2001, che riconosceva del genocidio degli armeni ad opera dei turchi, la legge Taubira (21 maggio 2001) che definiva la schiavitù e la tratta negriera «un crimine contro l'umanità». A differenza delle prime due, però, la legge del 23 febbraio non certificava una verità riconosciuta ma esprimeva un giudizio di valore che voleva essere anche una opzione storiografica. Alla fine Chirac riconobbe che il provvedimento andava rivisto, («il testo deve essere riscritto perchè divide i francesi»).
In questo senso, fino a poco tempo fa la Spagna era considerata come una sorta di esempio virtuoso. Dopo la morte di Franco, infatti, la scelta di mettere tra parentesi il passato della guerra civile (che - ricordiamolo - tra il 1936 e il 1939 sprofondò il paese in un abisso di ferocia e di orrore causando almeno 500 mila morti) contribuì alla moderazione del conflitto politico e a consolidare l'assetto democratico della Spagna. Nel 1939 il silenzio/oblio fu imposto dai vincitori e i vinti furono espropriati anche della possibilità di ricordare; dopo Franco, il silenzio ufficiale fu invece necessario per consentire l'avvio della democrazia. Poi, però, le cose sono cambiate. L'anno scorso, le associazioni dei familiari delle vittime del franchismo chiesero ufficialmente di dichiarare il 2006 l'anno della «memoria repubblicana»; l' Asociacion por la Recuperacion de la memoria Historica (ARMH) sollecitò successivamente una legge per proclamare il 18 luglio (data di inizio della guerra civile) «giornata della memoria» per la condanna il franchismo. Ora, i provvedimenti approntati dal governo Zapatero si propongono come un interessante elemento di riflessione per noi italiani. Mettiamola così; nell'immediato dopo Franco la democrazia spagnola era troppo fragile per pronunciare una netta condanna di quella dittatura mentre oggi, rinsaldatesi le istituzioni e affermatasi compiutamente la transizione alla democrazia, la Spagna in quella condanna ritrova l'essenza del suo spirito repubblicano e della sua identità civile. Di qui due equazioni: democrazia debole uguale a silenzio e oblio; democrazia forte uguale a condanna netta della dittatura. In Italia sembra che succeda il contrario; più passano gli anni, più la nostra democrazia sembra crescere, più la condanna del fascismo sbiadisce e i confini del patto che sorregge la memoria «ufficiale» si fanno labili e incerti.
Negli anni dello stalinismo, l'imposizione di una storia ufficiale era stata accompagnata da una violenta mutilazione della memoria. Ricordare diventò un crimine, il passato pericoloso: per paura si strapparono le pagine delle enciclopedie. Così, il contraccolpo della fine dell'Urss fu fragoroso, provocando prima una sorta di liberalizzazione selvaggia della memoria, poi il tentativo del nuovo regime di costruire una nuova storia ufficiale, mirata alla propria legittimazione: una nuova vulgata che, però, di quella sovietica ha ripreso gli schemi e i metodi. Addirittura è come se fosse in atto una cauta rivalutazione di Stalin: nel 1990 era considerato il personaggio più positivo della storia del Paese dall'8% degli intervistati; nel 1997 era già il 15% a condividere questa opinione; oggi si tende a vedere in lui non tanto il dittatore quanto il protagonista della «guerra patriottica» contro la Germania di Hitler. Insomma, più il nuovo Stato intensifica gli sforzi per la propria monumentalizzazione, più sembra produrre un contraddittorio ritorno al passato in chiave nazionalistica.
Il corto circuito tra Politica e Memoria, tra Stato e Storia si ritrova però anche nei paesi che non hanno alle spalle dittature e totalitarismi. Nella primavera scorsa in Inghilterra ha fatto molto scalpore un rapporto commissionato dal Ministero dell'Istruzione alla Historical Association. Lo studio ha rilevato che alcune scuole britanniche evitano di far lezione ai loro allievi sullo sterminio sistematico degli ebrei, giudicando l'Olocausto «una storia emotiva e controversa». In Francia l'abuso di leggi memoriali ha provocato polemiche furibonde. Nel 2005 ci fu la legge del 23 febbraio che sollecitava i manuali di storia adottati nelle scuole a dare un giudizio positivo sulla colonizzazione francese nell'Africa del Nord. Il provvedimento aveva almeno tre precedenti molto significativi: la legge Gayssot (13 luglio 1990) contro il negazionismo, quella del 29 gennaio 2001, che riconosceva del genocidio degli armeni ad opera dei turchi, la legge Taubira (21 maggio 2001) che definiva la schiavitù e la tratta negriera «un crimine contro l'umanità». A differenza delle prime due, però, la legge del 23 febbraio non certificava una verità riconosciuta ma esprimeva un giudizio di valore che voleva essere anche una opzione storiografica. Alla fine Chirac riconobbe che il provvedimento andava rivisto, («il testo deve essere riscritto perchè divide i francesi»).
In questo senso, fino a poco tempo fa la Spagna era considerata come una sorta di esempio virtuoso. Dopo la morte di Franco, infatti, la scelta di mettere tra parentesi il passato della guerra civile (che - ricordiamolo - tra il 1936 e il 1939 sprofondò il paese in un abisso di ferocia e di orrore causando almeno 500 mila morti) contribuì alla moderazione del conflitto politico e a consolidare l'assetto democratico della Spagna. Nel 1939 il silenzio/oblio fu imposto dai vincitori e i vinti furono espropriati anche della possibilità di ricordare; dopo Franco, il silenzio ufficiale fu invece necessario per consentire l'avvio della democrazia. Poi, però, le cose sono cambiate. L'anno scorso, le associazioni dei familiari delle vittime del franchismo chiesero ufficialmente di dichiarare il 2006 l'anno della «memoria repubblicana»; l' Asociacion por la Recuperacion de la memoria Historica (ARMH) sollecitò successivamente una legge per proclamare il 18 luglio (data di inizio della guerra civile) «giornata della memoria» per la condanna il franchismo. Ora, i provvedimenti approntati dal governo Zapatero si propongono come un interessante elemento di riflessione per noi italiani. Mettiamola così; nell'immediato dopo Franco la democrazia spagnola era troppo fragile per pronunciare una netta condanna di quella dittatura mentre oggi, rinsaldatesi le istituzioni e affermatasi compiutamente la transizione alla democrazia, la Spagna in quella condanna ritrova l'essenza del suo spirito repubblicano e della sua identità civile. Di qui due equazioni: democrazia debole uguale a silenzio e oblio; democrazia forte uguale a condanna netta della dittatura. In Italia sembra che succeda il contrario; più passano gli anni, più la nostra democrazia sembra crescere, più la condanna del fascismo sbiadisce e i confini del patto che sorregge la memoria «ufficiale» si fanno labili e incerti.
«La Stampa» del 12 ottobre 2007
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