Dopo la proposta di legge sulla punibilità dei «writers» critici e studiosi si dividono
di Stefano Bucci
Dorfles: «Sfoghi banali». Boeri: «Sono anche un fenomeno sociale»
In fondo sembra essere soltanto una questione di limiti: il limite che divide gli imbrattamuri dagli artisti, il limite che separa i writers punibili con i lavori obbligati (secondo il nuovo «pacchetto di sicurezza» del Governo) dagli emuli di quel Jean-Michel Basquiat che nel 1977 iniziò ad «affrescare» i muri di New York (con l’acronimo SAMO ovvero «SAMe Old Shit») e che oggi può contare su quotazioni in crescita del 45% in un anno (un suo Warrior è stato da poco venduto da Sotheby’s a Londra per quasi tre milioni di sterline). Ma non è così semplice perché la graffiti art è un’«arte di frontiera» nata da una contraddizione: quella «di usare come principale veicolo espressivo le scritte e i disegni tracciati abusivamente sui muri di edifici, vagoni, stazioni della metropolitana». E quindi di essere, di per sé, un’arte punibile per legge: qualche anno fa sette giovani artisti avevano addirittura fatto causa al comune di New York perché «vietava ai minori di 21 anni di acquistare le bombolette spray e i pennarelli a punta larga usati per scrivere sui muri, non garantendo così la libertà di espressione sancita dalla Costituzione. Certo non tutti sono degni di Keith Haring o di Donald Baechler, ma il critico Vittorio Sgarbi parla da sempre di «graffitari che migliorano la realtà» (Dacia Maraini denuncia invece «le scritte prepotenti, funeree, violente che comunicano egocentrismo desolato e disperata frustrazione»). Secondo l’architetto Vittorio Gregotti «al di là dei pochi veri artisti», la maggior parte è come «il vaffanculo di chi protesta, non ha senso». E spiega: «Tutto è iniziato negli anni Settanta nei quartieri ghetto del Bronx, dunque in Italia è un fenomeno di riporto che tocca Milano e poche altre realtà. La pretesa capacità di cambiare le periferie? Ci vuole ben altro». Per il professor Gillo Dorfles «l’eccesso è sbagliato in tutti i casi: lo sfogo è comprensibile ma è altrettanto giusto che chi sporca i monumenti pulisca. Dal punto di vista artistico va però chiarito che ormai si tratta di uno sfogo molto banale». Stefano Boeri, architetto e direttore di «Abitare» parla di gigantesco equivoco: «In Italia, e solo qui, si continua a giudicare e commentare i graffiti come se fossero un’espressione artistica, fino al punto da arrivare al ridicolo paradosso di esporli in uno spazio dedicato all’arte come il Pac di Milano. Ormai sono invece solo un fenomeno sociale rispettabile e diffuso, non governabile con leggi e norme: al contrario, perseguendolo si alimenta proprio quel meccanismo di autorappresentazione che i graffiti consentono». Il Brooklyn Museum di New York, l’anno scorso, aveva dedicato una mostra all’arte dei graffiti; dall’altra parte del mondo, il museo Mahmoud Moktar del Cairo ha fatto tappezzare i propri muri dai graffitari («mettere tutti quegli artisti in una stanza con colori e bombolette sarebbe stato pericoloso - spiegano -, con quegli spray qualcuno si sarebbe intossicato»). Ma neppure questa «nobilitazione» convince del tutto: il critico e storico dell’arte Arturo Carlo Quintavalle definisce «irrealizzabile» la museificazione «perché il graffitaro è un ribelle che deve rinnovare la città direttamente "sulla strada" con i suoi disegni». Ma Quintavalle non contesta però il valore di questa espressività: «Dire che non è arte è un errore storico. Chi lo fa non pensa alle chiese dipinte del Medioevo, ai graffiti monocromi di Polidoro e Maturino, all’età greca o al Rinascimento. Certo, poi è arrivato il neoclassicismo è tutto e diventato grigio. Il risultato sono le nostre città di oggi».
«Corriere della sera» del 10 ottobre 2007
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