di Massimo Gramellini
L'adolescente appicca un incendio nei boschi e dice ai carabinieri: l'ho fatto per provare un'emozione. L'adulto tradisce l'amata con una signorina a pagamento e confessa alla posta del cuore: l'ho fatto per provare un'emozione. Anch'io di recente devo aver provato qualcosa di simile: è stato quando sono sceso dall'auto nel piazzale di Valtournenche e sopra la mia testa ho visto incombere il Cervino. Mentre lo scrivo, so già che qualcuno mi prenderà per presuntuoso e qualcun altro per scemo. Invece vorrei soltanto capire quale appellativo meriti il sentimento che mi ha invaso il cuore durante quell'atto di pura contemplazione della maestà universale. Ci si può emozionare di un capolavoro della natura o della cultura, senza esserne per forza i protagonisti? Oppure è indispensabile interpretare il ruolo principale dello spettacolo, anche se stupido e superficiale, purché inedito e carico di adrenalina?
Ho sempre creduto che l'incapacità diffusa di godere le meraviglie della vita, quasi tutte gratis, dipendesse da un deficit di educazione estetica, deteriorata dal linguaggio violento e volgare della comunicazione di massa. Come se alcune persone non possedessero più le sfumature sensoriali per cogliere certe prelibatezze del cosmo e fossero costrette a provocarsi dei piccoli elettrochoc per illudersi di essere vive. Avevo sottovalutato un'altra molla non meno fatale: il desiderio disperato di sentirsi qualcuno, diffuso soprattutto in chi teme di essere nessuno.
«La Stampa» del 23 agosto 2007
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