L’interpretazione dello storico Lorenzo Renzi
Di Cesare Segre
Di Cesare Segre
La modernità di Paolo e Francesca Dall’Inferno a simbolo di vera passione
Quello di Paolo e Francesca è tra i canti più famosi della Divina Commedia, forse il più famoso. La passione, anche dei sensi, non era mai stata rappresentata prima nella nostra letteratura: la lirica, in particolare, si atteneva di norma a quello che Spitzer chiamava il paradosso dei trovatori: l’amore sussiste a condizione di non essere appagato; e persino la parola bacio si trova in quei testi ben di rado. Con Paolo e Francesca siamo portati al momento in cui l’amore, in una situazione resa eccitante dal desiderio inconsapevole, si concretizza in un bacio, presto seguito dall’amplesso cui Dante allude con una famosa reticenza («quel giorno più non vi leggemmo avante»). I due amanti stavano infatti leggendo un romanzo d’amore, il francese Lancelot en prose; in un certo senso, si riconobbero nella famosa coppia adulterina di Ginevra e Lancillotto. E forse noi lettori, per parte nostra, vediamo in Paolo e Francesca una trasposizione euforica di Dante e Beatrice, una specie di transfert, dato che questi ultimi non si baciarono certo mai, nemmeno nei sogni. Siamo abituati a cercare nel canto quinto dell’Inferno questo racconto d’amore e di morte, questa bufera infernale che trascina i due amanti, uniti per sempre, forse felici nonostante la condanna eterna. Ma sono stati i romantici a farci leggere così l’episodio. Lo studio dei commenti più antichi mostra che nella storia di Paolo e Francesca si vide per molto tempo solo l’aspetto moralistico: la giusta condanna di due adulteri, anche un po’incestuosi essendo cognati, e l’avvertimento di non leggere opere frivole, o di contenuto erotico, che sono un incentivo all’ozio e alla lascivia. Non si voleva notare che Dante prende parte, corpo e anima, alla vicenda dei due amanti piangendo con loro, e alla fine cadendo persino svenuto; voluta contraddizione tra la simpatia umana e la condanna (lo stesso accade nei riguardi di Ulisse). È questa la considerazione da cui parte un piacevolissimo volume del romanista e linguista Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio (Il Mulino, pp. 286, 17). Fra tutti i commenti antichi, Renzi si sofferma però su quello, controcorrente, del Boccaccio (Esposizioni sopra la Commedia, del 1374). Boccaccio racconta la storia dei due amanti come una novella. Vi sarebbe stato all’origine un inganno: a Francesca era stato fatto credere di sposare Paolo, che invece agiva per procura del fratello Gianciotto. Si capisce perciò che la donna, una volta venuta a conoscere la verità, abbia continuato ad amare il bel Paolo, invece che lo sciancato Gianciotto. Quando poi il vero marito colse gli amanti sul fatto, Francesca difese Paolo col suo corpo, e morì con lui. Insomma, prima vittima, poi eroina. Boccaccio, che espresse e dimostrò spesso la sua comprensione per le donne così maltrattate nel Medioevo, pensava in questo caso a Tristano, che sposa Isotta su procura di re Marco. I romantici, si diceva, sono ammaliati da Francesca. L’amore-passione, che porta sino alla morte, è certo un tema romantico per eccellenza. Nel ventaglio d’interpretazioni sette-ottocentesche dell’episodio, che vanno da Chateaubriand a Foscolo a Byron a Silvio Pellico, viene utilizzato spesso il racconto assolutorio di Boccaccio. Altre volte, come nel Pellico - uno dei molti, quasi sempre francesi, che ridussero per il teatro l’episodio -, si attribuisce a tutti i personaggi l’etichetta della nobiltà d’animo, rendendo questo amore totalmente spirituale. Ma per lo più la passione fa aggio sul peccato, e Francesca è considerata, ad esempio dal De Sanctis, come «la prima donna viva e vera apparsa sull’orizzonte poetico dei tempi moderni». Va aggiunto che questa lettura simpatetica del personaggio di Francesca ha fortuna anche sul piano figurativo, e i molti pittori che l’hanno fatta oggetto di loro opere, come mostra Renzi, hanno anche dato una mano a interpretarne la figura. È invece solo nel Novecento, specie grazie a Contini, che si è approfondito un altro aspetto della vicenda dei due amanti: la funzione suggestiva della letteratura. Si ricordi: Paolo e Francesca stanno leggendo il Lancelot en prose, e si baciano quando, nel romanzo, si baciano Lancillotto e Ginevra, con i quali dunque s’identificano. Sappiamo quanto profondamente lavorino dentro di noi le nostre letture, e non a caso gli scrittori ci presentano spesso degli eroi che sono consumatori accaniti di libri, e vivono idealmente nel mondo immaginato dai romanzieri: questo fa don Chisciotte, questo fa madame Bovary. E mi pare che si aggiunga un tocco non irriguardoso definendo Francesca, con Contini, una piccola intellettuale di provincia. Certo, nella Commedia Francesca descrive il suo amore per Paolo con le espressioni più alte elaborate dalla poesia dello Stilnovo, da Guinizelli al Cavalcanti. E quando afferma che Amore «a nullo amato amar perdona», cioè non tollera che chi è amato non contraccambi, enuncia un principio che sarebbe difficile difendere, nella teoria e nella pratica, ma che circolava in quei tempi. La condanna di Francesca all’inferno (anche se nel cerchio dei lussuriosi, il meno crudele) segna l’abbandono, da parte di Dante, delle concezioni stilnovistiche da lui abbracciate in gioventù ed elaborate nelle sue rime. È come se Francesca incarnasse le idee del Dante di una volta, mentre il Dante che l’ascolta, pure commosso, si trova ormai a un altro livello: quello in cui la sua Beatrice è diventata personificazione della Teologia. Renzi ama porsi domande, e così allarga la ricerca in varie direzioni, anche storiografiche. È assai intrigante questa: una volta condannato l’amore cortese, cioè quello trobadorico in versione italiana, e in genere l’amore carnale quando contrastante con i doveri matrimoniali, quale spazio dà Dante all’amore, appunto, coniugale? La domanda se l’era già posta Lino Pertile, rispondendo che questo amore, nella Commedia, non è presente. Certo, nel Paradiso ci sono molti personaggi coniugati, ma nessuno è lì per meriti legati a questa condizione, nemmeno Marzia, pur lodata da Catone, suo marito, all’inizio del Purgatorio. Molti di più quelli che hanno amato colpevolmente, come Cunizza da Romano e la biblica Raab, e si sono riscattati; o quelli che hanno sposato astrazioni: sposi della Povertà sono san Francesco con i suoi discepoli, e lo era stato Gesù Cristo. In generale, pare che la Commedia non sia interessata all’eventuale passaggio dall’amore terreno a quello divino, quasi che tra i due ci sia un salto, e non un eventuale sviluppo. Quanto alle corrispondenze tra questa impostazione e quella, da un lato dei Vangeli, dall’altro di Tolstoj, preferiamo rimetterci ai rispettivi specialisti.
Dante «incontra» Paolo e Francesca nel V Canto dell’Inferno, nel girone dei lussuriosi. La storia che racconta è quella di un matrimonio combinato nell’Italia del Duecento: Francesca da Rimini, figlia di Guido il Vecchio da Polenta, sposò nel 1275, per volere della famiglia, Gianciotto Malatesta, signore di Rimini, da cui ebbe una figlia. Sorpresa in flagrante adulterio con il cognato Paolo, fratello di Gianciotto, venne uccisa dal marito insieme all’amante, nel 1285.
«Corriere della Sera» del 7 agosto 2007
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