Gli scrittori divisi fra ideologia, politica e riconoscimento letterario
di Christopher Hitchens
Da comunista a mistica, una parabola che non intacca il valore del Nobel
È emozionante constatare che, una volta tanto, il Comitato del Nobel ha raggiunto una decisione encomiabile e onorevole, come se il lungo e uggioso regno di tutto ciò che è trascurabile, mediocre e sinistro fosse stato all’improvviso spazzato via dal lampo di un talento luminoso. E per di più il lampo di un talento ottuagenario, quasi che gli scandinavi si siano ricordati, con un certo senso di colpa, di aver lasciato scomparire scrittori del calibro di Nabokov e Borges mentre distribuivano tanti riconoscimenti letterari a personalità sbiadite o di secondo rango. Se avessero fatto questo scherzo anche a Doris Lessing, insignita del Nobel l’11 ottobre, i membri della giuria si sarebbero meritati eterna infamia. Harold Bloom, professore della Yale University e critico letterario, potrebbe aver ragione (anzi, a parer mio ha pienamente ragione) nell’affermare che la Lessing non ha scritto nulla di grande pregio negli ultimi quindici anni, ma questo non equivale a dire che non meritava gli allori del Nobel vent’anni fa, se non ancor prima. Fu Hemingway il primo a commentare acidamente che gli scrittori finiscono col ricevere il massimo riconoscimento troppo presto o troppo tardi. Nel suo caso, si paragonava a un nuotatore che raggiunge la riva con le sue forze e proprio allora viene tramortito dal lancio di un salvagente. Esaminare portata e profondità dell’opera della Lessing ci fa capire che esistono scrittori capaci di vivere veramente per amore della loro lingua e di essere pronti ad affrontare qualunque rischio. Ci fa inoltre capire che esiste un rapporto tra sete di verità e ricerca della parola giusta. Questa lotta potrebbe alla fin fine assumere contorni indefinibili e incerti, ma il lettore sa riconoscerla quando vi si imbatte. Ricordo con precisione cristallina il mio primo incontro con gli esordi narrativi della Lessing. Erano ambientati in Rhodesia (oggi Zimbabwe), sotto il regime coloniale dei bianchi, oltre trent’anni fa. Due suoi racconti - L’erba canta e Questa era la terra del vecchio capo - abbinano la tristezza sfocata di un ricordo malinconico alla consapevolezza che un’immensa ingiustizia era stata perpetrata nei confronti degli abitanti autoctoni del Paese nel quale la scrittrice si era trapiantata. Per gran parte della sua esistenza, Doris Lessing si è battuta contro l’apartheid e il colonialismo. Entrò nel partito comunista e sposò un esule comunista tedesco (fu assassinato mentre era inviato dalla Germania dell’Est presso l’odioso regime di Idi Amin in Uganda), e se volete sapere che cosa si provava a credere in un futuro comunista con tutto il cuore, i suoi romanzi di quel periodo ve lo descriveranno con toccante realismo. Successivamente, seguendo un percorso tanto comune che ormai lo diamo per scontato, la Lessing ripudiò la fede ideologica che l’aveva ispirata. Ma non senza parlarne nei suoi libri con maestria da mozzare il fiato. C’è un breve racconto, Il giorno della morte di Stalin, che merita d’essere riprodotto in tutte le antologie di prosa del XX secolo. Solo due volte nella vita ho provato che cosa significa leggere una storia talmente bella, e che sembrava anticipare con tale precisione tutti i miei pensieri, che avevo quasi paura di proseguire la lettura. La prima volta mi era capitato con Katherine Mansfield, e la seconda volta davanti al racconto della Lessing La tentazione di Jack Orkney, che tratta tra l’altro anche di una crisi religiosa. Vi esorto ad acquistare le raccolte che contengono queste storie: vi aiuteranno a capire in che cosa consiste l’eccellenza della narrativa moderna. Direi che nel caso della Lessing fu il rispetto per la lingua, più che un trauma politico, a spingerla ad abbandonare il partito comunista. Una volta mi confessò di aver fatto parte del cosiddetto «gruppo degli scrittori» del partito, che si riuniva per discutere i «problemi» degli scrittori «impegnati», prima di rendersi conto che il principale problema della scrittura stava innanzitutto nel partecipare a quel gruppo, per non parlare del partito. Il Comitato del Nobel, ligio come sempre all’obbligo di giustificare il riconoscimento, cita doverosamente l’elemento epico presente nel femminismo di frontiera della Lessing. Non c’è motivo di dissentire. Tuttavia, nel sottolineare i desideri e le ambizioni sepolte della donna, e nel costringere i lettori ad affrontare quello che in un certo senso già «sanno», Doris Lessing ribadisce che una donna vera vuole accanto a sé un vero uomo. L’aver insistito su questo punto tanto elementare le ha alienato le simpatie di molti ammiratori - ma gliene ha acquisiti altrettanti. Eppure, la scrittrice non poteva asservire le sue capacità letterarie ed emotive ai vili scopi della propaganda. Non voglio trasformarla in un vecchio saggio, né in una grande dame. Il suo libro più anticomunista, Il vento disperde le nostre parole, è il resoconto quasi troppo romantico della lotta dei ribelli contro l’Armata Rossa in Afghanistan. Non trovo la sua fantascienza particolarmente avvincente e sono rimasto piuttosto freddo quando ha cercato di stuzzicare il mio interesse per un ciarlatano mistico del Sufismo, tale Idries Shah. Quello che trovo ammirevole è la volontà della Lessing di sperimentare tante forme diverse di scrittura e persino accettare il rischio di sembrare fatua, piuttosto che lasciarsi imprigionare in uno stereotipo. Sono rimasto incuriosito e commosso nel vederla fotografata davanti alla casetta a schiera nel quartiere di Londra, piuttosto plebeo e caotico, dove abita da tanti anni. Avendo incarnato l’angelo vendicatore della sessualità in gioventù, la Lessing non si preoccupa affatto, sulla soglia dei novant’anni, di assomigliare un po’a una barbona o una gattara. (A dire il vero, ha scritto anche un gran bel libro sui gatti). La scena era permeata di serenità: il ritratto di una scrittrice insignita del Nobel, ma che non aveva bisogno di questo tipo di conferma.
Il Nobel vinto da Doris Lessing ha offerto l’occasione per aprire un dibattito su letteratura e politica Sono intervenuti sul «Corriere»: il 16 ottobre Orhan Pamuk, mercoledì 17 la stessa Lessing, il 19 ottobre Pierluigi Battista e ieri Claudio Magris Nei giorni 18 e 20 si sono espressi sul tema alcuni autori italiani interpellati da Ranieri Polese
«Corriere della sera» del 22 ottobre 2007
Nessun commento:
Posta un commento