«Mondo Contemporaneo» rievoca il cambio di strategia di Botteghe Oscure su Israele
di Dino Messina
Furono i processi staliniani contro gli ebrei ad avviare la svolta nel ‘52.
Sull’«Unità» le fattorie collettive vennero definite «una forma raffinata di sfruttamento»
Nella prefazione a un libro di Luciano Tas, Cartina rossa del Medio Oriente, pubblicato dalle edizioni della Voce nel 1971, Alberto Cavallari indicava nel 1967, anno della guerra dei Sei giorni, il momento della svolta anti-israeliana del Pci. Quell’anno, assieme al fatidico 1956, in cui ai fatti d’Ungheria si accavalla la crisi di Suez, è considerato cruciale nell’atteggiamento del Partito comunista italiano verso la questione palestinese e il sionismo. In realtà, come dimostra un’attenta ricerca di Gianmarco Santese, dell’Università Roma Tre, l’antisionismo del Pci, che a volte assunse i tratti di un vero e proprio antisemitismo, deve essere retrodatato di molto. Lo studio di Santese, che apparirà sul prossimo numero di Mondo Contemporaneo, il quadrimestrale di storia edito da Franco Angeli e diretto da Giuseppe Conti, Luigi Goglia, Renato Moro e Mario Toscano, analizza in particolare le annate dell’Unità e Rinascita dal 1945 al 1956, documentando l’iniziale appoggio che i comunisti italiani diedero alla causa ebraica contro la potenza mandataria britannica. In un articolo del 30 giugno 1946 l’Unità parlava di «un movimento indipendentistico degli ebrei in Palestina che lottano per la liberazione del Paese dall’oppressione britannica». Il sionismo, osserva Santese, era lungi dall’esser considerato un movimento colonialista, così come le rivalità tra ebrei e arabi erano messe in secondo piano e l’attenzione focalizzata «sull’azione di repressione del Foreign Office». Così nel maggio 1948 la nascita dello Stato d’Israele, considerato «un cavallo di Troia per espugnare la fortezza mediorientale», venne salutata favorevolmente al punto che Umberto Terracini, durante il dibattito sulla ratifica del Patto atlantico, «biasimò il ritardo con cui il governo italiano aveva riconosciuto il giovane Stato». In questa luce potrebbero apparire incomprensibili i sei reportage di Alberto Jacoviello, pubblicati nel maggio 1950 dall’Unità. In essi l’inviato di punta del giornale comunista accusava Israele di «sciovinismo nei confronti della comunità araba» e per la prima volta, nota Santese, «il termine sionismo veniva chiaramente accostato ad una politica razzista ed esclusivista, non più prerogativa solo di un governo o di una parte della società, ma della stessa ideologia sionista». Che cosa aveva determinato questo rovesciamento di posizioni? «Le votazioni che si tennero il 26 gennaio 1949 per l’elezione del Parlamento israeliano (Knesset) - spiega Santese - costituirono la prima importante tappa della disillusione comunista verso lo Stato ebraico; esse videro la sconfitta del Maki (Partito comunista israeliano) e del Mapam (socialista di sinistra) e decretarono la vittoria del Mapai, di ispirazione laburista, guidato da Ben Gurion». A ciò andava aggiunto l’annuncio di un prestito americano ad Israele «che segnò l’inizio del deterioramento dei rapporti tra lo Stato ebraico e l’Unione Sovietica». Era chiaro che Israele non poteva essere più considerato l’avamposto antimperialistico in Medio Oriente e Alberto Jacoviello poteva condannare i kibbutz come «una raffinata forma di sfruttamento capitalistico». Siamo ancora nell’ambito della critica, non della demonizzazione, sebbene Israele venisse sempre più frequentemente indicato come una «colonia americana». Il momento cruciale della svolta antisionista del Pci doveva ancora arrivare. Ed esso viene individuato «in quei mesi che tra il 1952 e il 1953 videro la messa in scena, prima a Praga e poi a Mosca, dei processi farsa alla "banda Slansky" e ad un gruppo di medici accusati ingiustamente di aver avvelenato importanti dirigenti sovietici». In entrambi i casi la maggior parte degli imputati era di origine ebraica e questa era la base per denunciare un «complotto ebraico-imperialista» e annullare ogni differenza tra la qualifica di ebreo e quella di sionista, come scrisse Arthur London (uno dei condannati) nel libro La confessione, pubblicato in Italia da Garzanti. I comunisti italiani furono influenzati dall’ondata antisemita che partiva dall’Urss: tra il novembre 1952, quando venne aperto a Praga il processo alla cosiddetta banda Slansky, e l’inizio del 1953, quando a Mosca un gruppo di medici ebrei fu accusato di aver assassinato, «istigato dall’organizzazione internazionale ebraica borghese nazionalista Joint», i dirigenti Zdanov e Schterbakov. Sull’Unità, annota Santese, «il sionismo assunse il rango di nemico del socialismo quasi al pari dell’imperialismo americano». E «da movimento popolare attraverso il quale gli ebrei avevano lottato per la loro indipendenza», divenne «come un’organizzazione elitaria strettamente connessa al capitalismo mondiale». Paolo Robotti arrivò a prefigurare un’alleanza antisovietica tra «banchieri ebrei e finanza cattolica, molti rabbini e muftì». L’antisionismo aveva raggiunto una dimensione addirittura caricaturale che tuttavia contribuì notevolmente alla formazione di un orientamento anti-israeliano nell’opinione pubblica di sinistra. Secondo Santese, poi, se «la svolta anti-israeliana del Pci si consumò definitivamente tra il 1952 e il 1953, l’atteggiamento comunista verso i regimi arabi mutò radicalmente solo in seguito al trattato ceco-egiziano, nell’autunno 1955». Con ciò sottolineando ancora una volta che i comunisti italiani seguirono sempre gli orientamenti sovietici: dai deliri staliniani sulle congiure sioniste alla consacrazione dell’egiziano Nasser come leader dell’anti-imperialismo.
«Corriere della Sera» del 9 agosto 2007
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