di Maurizio Cecchetti
Cominciamo con un’annotazione di buon senso. La moda esiste per imporre alla gente qualcosa di cui potrebbe fare normalmente a meno. Questo vale per i vestiti, per i gusti alimentari, per gli oggetti di qualunque genere, purché trendy, e vale anche per il linguaggio. Anzi, il linguaggio è spesso il sintomo di una nuova moda in fieri. Adesso è la «casta», parola che si diffonde a non finire e insidia tutti. Dopo i politici (grazie al libro di Stella&Rizzo), si cominciano a vedere potentati e privilegiati ovunque: «Il giornale dell’arte», per esempio, pubblica un editoriale il cui titolo cela il vezzo moraleggiante con un calembour: «La Casta dell’asta». E sul banco degli imputati non poteva mancare, in questo nuovo spirito dei tempi, anche la «casta letteraria» (vedi «Avvenire» di ieri). Di questo passo avremo presto processi alle caste delle casalinghe, dei macellai, dei ragionieri, delle maestre d’asilo, dei tassisti, delle lavandaie... Non so perché ma un simile impulso moralizzatore mi ricorda i «gattopardi». E veniamo alla materia del contendere. Nel dibattito di «Avvenire» Ermanno Paccagnini ieri scommetteva che se oggi arrivasse sui tavoli di una casa editrice un libro di Montale e un altro di Moana Pozzi, la scelta cadrebbe chiaramente sul libro della pornostar. Pensare che questo sia una questione di casta è un paralogismo. In questi anni abbiamo visto furoreggiare in libreria comici e personaggi televisivi spacciati persino per grandi scrittori. E sono proliferati i libri-spazzatura, i libri-scatolavuota, i libri tossici e inquinanti. Prodotti che hanno formato una «classe» di lettori che confondono la lettura con lo svago e il divertimento (che in sé non è un male, a patto che non diventi imbecillità). I poteri culturali, poi, oggi sono in mano non agli scrittori o ai critici, ma ai manager, ai finanzieri, a quelli che fanno i conti e su questi decidono che cosa pubblicare. Magari, fatti i soldi col «best-seller» progettato a tavolino, elargiscono un po’ di quel capitale pubblicando anche i cosiddetti veri scrittori, che da un lato accusano il sistema, ma in realtà sperano sempre di trovare per il loro libro editori grandi o trendy. È un tale intreccio di personaggi, ruoli, aspettative che risulta difficile dire quale sia la casta, poiché è proprio l’idea di sistema che non rende possibile stabilire un solo responsabile, mentre si sa che quello stesso sistema somma in sé un’infinità di poteri. L’estate scorsa un divertente teatrino vide la presidentessa di un premio accusata da gran parte della giuria di scelte autoritarie. Tutto, alla fine, è svanito come una bolla di sapone. E l’ineffabile signora commentava ironica: tanto baccano per nulla, in fondo si sa che quello dei premi è soltanto un giochino. Adesso c’è chi giura che sia già stato deciso il vincitore del premio Strega 2008 (qualcuno ha scritto il nome su un foglio, l’ha chiuso in una busta e l’ha affidato a un notaio, caso mai domani si dicesse che i giochi non erano già fatti. E il nome pare sia quello di uno scrittore fresco di un’ambiziosissima impresa letteraria già stroncata da tre o quattro critici. Si parla di complotto, e in questi casi, si sa, l’unica arma per risollevarsi è la pubblicità subliminale e la vocina dei suggeritori sibila alle orecchie giuste: «vota Antonio! vota Antonio! vota Antonio!»). Le vere caste, in realtà, sono consapevoli dei loro privilegi, hanno il senso del ridicolo ed esercitano il potere in modo quasi sacrale. La nostra querelle, invece, riguarda banalissime consorterie; ma mentre in passato si sentivano volare reciproche accuse di mafia per il modo con cui ciascuna controllava spazi importanti del sistema editoriale, oggi, mentre sono i bilanci a dettare legge, sembra che quegli stessi poteri elemosino il loro diritto a far passare opere di qualità. Più che una casta, dunque, sembra il teatro dell’assurdo, o peggio una presa in giro.
Avvenire dell'11 ottobre 2007
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