23 ottobre 2007

Pamuk e Lessing: una lezione

Gli intellettuali alla corte dei politici
di Pierluigi Battista
Da una parte due premi Nobel, Orhan Pamuk e Doris Lessing, che auspicano la liberazione della letteratura dalle pretese asfissianti della politica e dell’ideologia. Dall’altra, in Italia, la folla debordante di scrittori, attori, artisti della penna e del pennello che nel nome di una effimera rivendicazione alla visibilità si accalcano alle porte dei partiti vecchi e nuovi: senza risparmio di imbarazzanti encomi al Capo, peraltro. Pamuk afferma che «mettersi al servizio di una causa distrugge la bellezza della letteratura», e Doris Lessing che «i manifesti uccidono gli scrittori». Ma c’è da scommettere che, tranne lodevoli eccezioni, l’esortazione di Pamuk e Lessing non riscuoterà molti consensi. Qui i «manifesti» proliferano, ultimo quello dei registi che si mettono in fila alla Festa romana del cinema per incrementare le già cospicue erogazioni statali per i loro film. E c’è sempre una buona Causa cui consacrare impegno e pubbliche relazioni. E’tramontato già da tempo il sole dell’«intellettuale organico», ma è come se per scrittori e artisti la solitudine, l’irregolarità, la non appartenenza frutto di una condizione eccentrica e «disorganica» fossero un prezzo troppo salato, una condizione esistenzialmente troppo onerosa e inappagante. Pamuk e Doris Lessing forse avvertono quanto appaia artificiosa e inautentica la mimesi parodistica dell’engagement inscenata da alcuni loro predecessori al Nobel, in primis José Saramago ed Harold Pinter. E le loro parole sembrano indicare simultaneamente il bisogno culturale e letterario di una maggiore sobrietà, di uno stile più appartato, di un definitivo congedarsi dalla figura ieratica dell’intellettuale moderno che si atteggia a «funzionario dell’Umanità». Ma in Italia la fine di una stagione militante e ideologica che ha generato, oltre a ottusi dogmatismi e imperdonabili censure, anche una passione creativa ineguagliata nell’èra del disincanto, ha depositato qualcosa di più e di peggio: un’attitudine adulatoria nei confronti della politica che conferma una vocazione cortigiana forgiatasi nei secoli; un’inclinazione subalterna che, spogliata di ogni riferimento ideologico forte, si rivela soltanto come una forma di soggezione supplice verso il potere politico. Dimostrarsi sensibili all’appello di Orhan Pamuk e Doris Lessing comporterebbe per gli intellettuali italiani riconoscere che ciò che di meglio ha partorito la cultura dell’Italia repubblicana è cresciuto al di fuori degli apparati e degli uffici dove si dispensavano gli attestati di fedeltà ideologica: da Montale a Gadda, da Contini a Longhi, da Flaiano a Fellini, da Brancati a Elsa Morante. Non fuori della politica, la cui febbre travolgente e contagiosa ha anzi grandiosamente fecondato l’arte e la letteratura moderne. Ma nemmeno in un rapporto ancillare con la politica, con le estetiche di partito, con i manifesti, le dottrine, le candidature, i panegirici, con il moltiplicarsi delle buone Cause. Riconoscere questa eredità, l’unica a restare salda nelle macerie ideologiche del passato, permetterebbe di afferrare il divario stridente tra le parole accorate dei due Nobel e il modo con cui la cultura italiana si adopera per stringere rapporti pericolosi con la politica, con eccessi che mettono in imbarazzo gli stessi politici. Lontana dagli eroismi di un tempo lontano e succube del clamore dei media. Per un posto al sole che non è nemmeno più il sol dell’avvenire.
«Corriere della sera» del 19 ottobre 2007

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