23 ottobre 2007

Per i professori italiani gli esami non cominciano mai

di Attilio Oliva (Presidente Associazione TreeLLLE)
È stato appena siglato il contratto scuola. Per la quarta volta in 15 anni è stata rinviata la possibilità di collegare la progressione della remunerazione alla qualità del lavoro. A perdere sono soprattutto gli insegnanti che costantemente si sentono investiti da nuovi compiti e nuovi problemi da risolvere con un contratto per troppi aspetti assimilabile a quello di un qualsiasi dipendente pubblico di modesta qualifica. Caso unico in Europa, gli insegnanti italiani non subiscono nessun tipo di valutazione (positiva o negativa che sia) né dai «pari», né dalla gerarchia (i presidi), né dall’esterno (gli ispettori ministeriali). Così il lavoro dell’insegnante è diventato invisibile sia all’esterno sia all’interno, agli insegnanti stessi: vale solo la buona reputazione. Tutto deriva da una grave anomalia di sistema: la pretesa insostenibile di gestire centralmente e secondo modelli organizzativi uniformi oltre 800.000 insegnanti. Un sistema simile è in rotta di collisione con le buone regole per la gestione di sistemi complessi che impongono decentramento, flessibilità e responsabilizzazione degli attori sui risultati all’insegna del principio di sussidiarietà. Si continua invece ad affrontare la complessità negandola, cioè considerando tutti eguali. La scelta di trattare tutti gli insegnanti allo stesso modo, a prescindere dai meriti individuali, ha dei costi pesantissimi: mortifica i migliori e scoraggia i più giovani; induce un atteggiamento impiegatizio; impedisce la crescita di una cultura della valutazione; impedisce all’opinione pubblica di formarsi un’idea su come funziona la scuola. Si alimenta così un pericoloso cortocircuito: è difficile che docenti insoddisfatti riescano a trasmettere ai giovani un messaggio positivo. I nodi che contrattualmente non si riescono a risolvere (a prescindere da quello delle risorse finanziarie) sono principalmente due: «che cosa» si deve valutare e «chi» può e deve valutare. Coriacee sono le resistenze sindacali perché in effetti tutti gli insegnanti fanno lo stesso lavoro. Ma non è vero (e neppure onesto fingere che lo sia) che tutti lo facciano allo stesso modo e con gli stessi risultati. Molti fanno bene: ancor più numerosi sono quelli che potrebbero fare meglio in presenza di qualche incentivo in presenza di un sistema pregnante. Che cosa si deve valutare? Saperi e abilità diversificate: sapere la materia, saper insegnare, sapersi rapportare con i colleghi e le famiglie, saper motivare gli studenti, saperli valutare correttamente, etc. Queste qualità sono difficilmente misurabili con indicatori oggettivi. L’apprezzamento sintetico della professionalità di un insegnante è costoso e problematico se realizzato da parte di soggetti lontani ed esterni rispetto al contesto della singola scuola mentre sarebbe più semplice ed efficace se esercitato all’interno delle singole scuole. Chi può e deve valutare? Certamente il dirigente della scuola, ma anche una selezione dei «pari» (i colleghi) e soprattutto l’utenza, cioè gli studenti maggiorenni usciti dalla scuola. Anche i test nazionali sugli apprendimenti degli studenti (e in particolare sui loro progressi) sarebbero una base utile per una valutazione integrata. Un riconoscimento professionale ottenuto attraverso il concorso di competenze e punti di vista così diversi consentirebbe un bilanciamento dei pareri e una valutazione difficilmente discutibile. L’obiettivo allora è individuare procedure trasparenti per far emergere quello che già esiste ed è ben noto a tutti in ogni ambiente scolastico. È quello che ha proposto l’Associazione TreeLLLe denominandolo metodo della «reputazione documentata». Solo la rottura del sistema centralistico e il dispiegarsi pieno dell’autonomia scolastica possono consentire le condizioni essenziali per attivare compiute metodologie valutative sul personale. Va anche rimarcato che, in prospettiva, è alle singole scuole che dovrebbe essere affidato il potere di scegliere e valorizzare il personale, come già da anni fanno Regno Unito, Irlanda, Danimarca, Paesi Bassi, Svezia, Norvegia, e altri.
«Corriere della sera» del 22 ottobre 2007

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