di Barbara Spinelli
Stando a un sondaggio di SkyTg24, sono molti gli italiani convinti che i cinque eritrei sopravvissuti alla morte nel Mediterraneo vadano processati per reato di immigrazione clandestina: il 71 per cento. Su quel barcone sono periti 73 fuggiaschi, tra il 18 e il 20 agosto, eppure non sembra esserci emozione di fronte al naufragio ma solo famelica ansia di allontanare gli alieni dalle nostre terre, con ogni mezzo. Erano uomini di troppo i sommersi, e lo sono anche i salvati. I ministri di Berlusconi ne approfittano per ricordare che i respingimenti funzionano, che si fan rari gli intrepidi che tentano le traversate: nessuno porta il lutto per i sommersi né immagina quel che hanno vissuto i salvati. Se ci son colpe, è l’Europa a commetterle. La miseria del mondo non può addensarsi sul Sud del continente. Non siamo buoni al punto da esser fessi: questo fanno capire Maroni, Calderoli, e gli italiani sembrano sostenerli.
Ma forse l’opinione pubblica li sostiene perché scandalosamente male informata, non solo su quello che accade nel mondo ma su quello che succede in Italia, nell’anima d’ognuno di noi. Gli italiani non sono informati, e ancor meno formati, da guide morali alla testa del paese. Non conoscono l’insipienza di un’Unione europea incapace di darsi regolamenti vincolanti e rispettosi dei diritti, riguardo agli immigrati irregolari. Non sanno quel che prescrivono le convenzioni internazionali, la Costituzione, e le antiche leggi del mare che obbligano al salvataggio del naufrago anche in acque territoriali straniere (Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, cap 11 e 12; Convenzione delle Nazioni Unite del 1982 sul diritto del mare, cap 98, 1 e 18,2).
Abbiamo parlato di emozione, ma non è l’unico istinto a far difetto. Quel che è profondamente incrinato, se non spezzato, è il rapporto che gli italiani - cominciando da chi oggi pretende di governarli - hanno con la legge. Quale che sia la legge, nazionale o internazionale, essa è vista come qualcosa di esterno al singolo, allontanata dalla nostra coscienza. È come se la coscienza nazionale e dell’individuo avesse preso le sembianze e il lessico di un’azienda. Nelle aziende si usa esternalizzare a imprese terze la gestione di alcune operazioni che non fanno parte del core business. Così la coscienza: dal suo core business, dalla sua principale attività, il senso della legge viene scacciato in terre aliene.
Questo allontanamento non è in verità nuovo. Piero Calamandrei lo smascherò, il 30 marzo 1956, quando pronunciò a Palermo la sua ultima arringa in tribunale, in difesa di Danilo Dolci e della sua protesta (sciopero della fame contro i pescherecci contrabbandieri tollerati dal governo; sterramento gratuito di una strada abbandonata presso Palermo, da parte di gruppi di disoccupati). Narrando la «maledizione secolare» dell’Italia disse: «Il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico. Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un’idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e soffocare sotto carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami».
Quel che è cambiato, dal ‘56, è che nel frattempo non sono solo i poveri a farsi un’idea soffocante della legalità, della giustizia, dello Stato di diritto. Se Berlusconi è tanto popolare, se a Nord la Lega è oggi il primo partito operaio, vuol dire che anche i ricchi si sentono gabbati e schiacciati da ogni sorta di regole: legali, costituzionali, internazionali. Che l’esteriorizzazione della legge è ormai una patologia diffusa, intensificata da una ostilità senza precedente alla stampa veramente libera. Se si esclude il dramma degli immigrati, la legalità e la battaglia alla corruzione non sono prioritarie neppure per alti esponenti della Chiesa, che pur di ottenere favori e pubblicità accettano di compromettersi. Di qui la sensazione che siamo male informati anche su quel che succede nei nostri animi. Una coscienza che delocalizza la legge è vuota, è pelle senza corpo. Neppure le riforme economiche riescono, in queste condizioni. Diceva ancora Calamandrei che democrazia è innanzitutto «fiducia del popolo nelle sue leggi»: leggi che il popolo sente «come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall'alto. Affinché la legalità discenda dai codici nel costume, bisogna che le leggi vengano dal di dentro, non dal di fuori: le leggi che il popolo rispetta, perché esso stesso le ha volute così» (i corsivi sono miei).
La legge del mare violata più volte negli ultimi anni è una delle nostre leggi: plurisecolare, fu codificata fra il ‘700 e il ‘900. Lo stesso dicasi per le condotte private che l’uomo pubblico deve avere per divenire modello oltre che capo o dirigente. All’inizio, tutte queste erano leggi non scritte, ataviche. Una sorta di permanente stato di eccezione ha sospeso anche le leggi che Antigone difende contro i decreti d’emergenza di Creonte. «Antigone obbedisce soltanto alla legge morale della coscienza, alle “leggi non scritte” che preannunciano l’avvenire», dice Calamandrei. Oggi tali leggi sono scritte, proprio perché si è riconosciuto che oltre a portare ordine sono anche annunciatrici dell’avvenire.
La maledizione antica si è fatta più spavalda, nei 15 anni passati. Non solo manca la fierezza della legge. C’è una sorta di fierezza dell’illegalità, ci sono tabù di civiltà fatti cadere con spocchia. Il degrado non è avvenuto con lo sdoganamento di Alleanza Nazionale, come si credette nei primi anni ‘90, ma con lo sdoganamento delle idee, degli atti, delle parole della Lega. E di questo affrancamento non è responsabile solo Berlusconi. È responsabile anche la sinistra, incurante dei principi quando è in gioco il potere (D’Alema parlò dei leghisti come di una «costola della sinistra», negli anni ‘90). Lo è ancor più da quando il Nord leghista si è ulteriormente disinibito. In ben 17 comuni del Veneto, il Partito democratico governa oggi con la Lega, senza rimorsi.
È lunga ormai la lista delle devianze leghiste, e quasi ci meravigliamo che all’estero non ci si abitui come ci siamo abituati noi. Ma come abituarsi a quanto sentito in coincidenza con l’ecatombe di agosto! Una pagina Facebook di militanti della Lega Nord con sede a Mirano, cui sono legati da «amicizia» oltre 400 persone, ha esibito qualche giorno fa la scritta: «Immigrati clandestini: torturali! E’ legittima difesa». Tra gli amici citati: Bossi e il figlio Renzo, Cota capogruppo della Lega alla Camera, Boso ex parlamentare leghista. Lo stesso Renzo Bossi ha ideato un gioco di gran successo, sulla pagina di Facebook della Lega. S’intitola: «Rimbalza il clandestino». Più barche affondi, con un clic preciso e deciso, più punti vinci. Soprattutto se i barconi son grandi e i profughi molti.
Tuttavia c’è un’immensa ansia di redenzione in Italia - e in particolare di redenzione attraverso la Legge - che si esprime in vari modi e ha i suoi protagonisti solitari, cocciuti, impavidi. Il desiderio di redenzione è passione civile, non solo religiosa. Ne furono pervasi scrittori del ‘900 come Walter Benjamin e Hermann Broch, durante il nazismo. In Italia ne ebbero sete uomini come Borsellino, Falcone, Ambrosoli, Pasolini, e oggi Roberto Saviano. È strano come i loro vocabolari si somiglino. Borsellino sognava il «fresco profumo di libertà», contro «il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, della complicità».
E altri sognarono aria pulita e uno Stato riformato. Checché ne dicano i sondaggi non c’è italiano, credo, che non aneli a quell’aria pulita e a quel fresco profumo.
Ma forse l’opinione pubblica li sostiene perché scandalosamente male informata, non solo su quello che accade nel mondo ma su quello che succede in Italia, nell’anima d’ognuno di noi. Gli italiani non sono informati, e ancor meno formati, da guide morali alla testa del paese. Non conoscono l’insipienza di un’Unione europea incapace di darsi regolamenti vincolanti e rispettosi dei diritti, riguardo agli immigrati irregolari. Non sanno quel che prescrivono le convenzioni internazionali, la Costituzione, e le antiche leggi del mare che obbligano al salvataggio del naufrago anche in acque territoriali straniere (Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, cap 11 e 12; Convenzione delle Nazioni Unite del 1982 sul diritto del mare, cap 98, 1 e 18,2).
Abbiamo parlato di emozione, ma non è l’unico istinto a far difetto. Quel che è profondamente incrinato, se non spezzato, è il rapporto che gli italiani - cominciando da chi oggi pretende di governarli - hanno con la legge. Quale che sia la legge, nazionale o internazionale, essa è vista come qualcosa di esterno al singolo, allontanata dalla nostra coscienza. È come se la coscienza nazionale e dell’individuo avesse preso le sembianze e il lessico di un’azienda. Nelle aziende si usa esternalizzare a imprese terze la gestione di alcune operazioni che non fanno parte del core business. Così la coscienza: dal suo core business, dalla sua principale attività, il senso della legge viene scacciato in terre aliene.
Questo allontanamento non è in verità nuovo. Piero Calamandrei lo smascherò, il 30 marzo 1956, quando pronunciò a Palermo la sua ultima arringa in tribunale, in difesa di Danilo Dolci e della sua protesta (sciopero della fame contro i pescherecci contrabbandieri tollerati dal governo; sterramento gratuito di una strada abbandonata presso Palermo, da parte di gruppi di disoccupati). Narrando la «maledizione secolare» dell’Italia disse: «Il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico. Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un’idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e soffocare sotto carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami».
Quel che è cambiato, dal ‘56, è che nel frattempo non sono solo i poveri a farsi un’idea soffocante della legalità, della giustizia, dello Stato di diritto. Se Berlusconi è tanto popolare, se a Nord la Lega è oggi il primo partito operaio, vuol dire che anche i ricchi si sentono gabbati e schiacciati da ogni sorta di regole: legali, costituzionali, internazionali. Che l’esteriorizzazione della legge è ormai una patologia diffusa, intensificata da una ostilità senza precedente alla stampa veramente libera. Se si esclude il dramma degli immigrati, la legalità e la battaglia alla corruzione non sono prioritarie neppure per alti esponenti della Chiesa, che pur di ottenere favori e pubblicità accettano di compromettersi. Di qui la sensazione che siamo male informati anche su quel che succede nei nostri animi. Una coscienza che delocalizza la legge è vuota, è pelle senza corpo. Neppure le riforme economiche riescono, in queste condizioni. Diceva ancora Calamandrei che democrazia è innanzitutto «fiducia del popolo nelle sue leggi»: leggi che il popolo sente «come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall'alto. Affinché la legalità discenda dai codici nel costume, bisogna che le leggi vengano dal di dentro, non dal di fuori: le leggi che il popolo rispetta, perché esso stesso le ha volute così» (i corsivi sono miei).
La legge del mare violata più volte negli ultimi anni è una delle nostre leggi: plurisecolare, fu codificata fra il ‘700 e il ‘900. Lo stesso dicasi per le condotte private che l’uomo pubblico deve avere per divenire modello oltre che capo o dirigente. All’inizio, tutte queste erano leggi non scritte, ataviche. Una sorta di permanente stato di eccezione ha sospeso anche le leggi che Antigone difende contro i decreti d’emergenza di Creonte. «Antigone obbedisce soltanto alla legge morale della coscienza, alle “leggi non scritte” che preannunciano l’avvenire», dice Calamandrei. Oggi tali leggi sono scritte, proprio perché si è riconosciuto che oltre a portare ordine sono anche annunciatrici dell’avvenire.
La maledizione antica si è fatta più spavalda, nei 15 anni passati. Non solo manca la fierezza della legge. C’è una sorta di fierezza dell’illegalità, ci sono tabù di civiltà fatti cadere con spocchia. Il degrado non è avvenuto con lo sdoganamento di Alleanza Nazionale, come si credette nei primi anni ‘90, ma con lo sdoganamento delle idee, degli atti, delle parole della Lega. E di questo affrancamento non è responsabile solo Berlusconi. È responsabile anche la sinistra, incurante dei principi quando è in gioco il potere (D’Alema parlò dei leghisti come di una «costola della sinistra», negli anni ‘90). Lo è ancor più da quando il Nord leghista si è ulteriormente disinibito. In ben 17 comuni del Veneto, il Partito democratico governa oggi con la Lega, senza rimorsi.
È lunga ormai la lista delle devianze leghiste, e quasi ci meravigliamo che all’estero non ci si abitui come ci siamo abituati noi. Ma come abituarsi a quanto sentito in coincidenza con l’ecatombe di agosto! Una pagina Facebook di militanti della Lega Nord con sede a Mirano, cui sono legati da «amicizia» oltre 400 persone, ha esibito qualche giorno fa la scritta: «Immigrati clandestini: torturali! E’ legittima difesa». Tra gli amici citati: Bossi e il figlio Renzo, Cota capogruppo della Lega alla Camera, Boso ex parlamentare leghista. Lo stesso Renzo Bossi ha ideato un gioco di gran successo, sulla pagina di Facebook della Lega. S’intitola: «Rimbalza il clandestino». Più barche affondi, con un clic preciso e deciso, più punti vinci. Soprattutto se i barconi son grandi e i profughi molti.
Tuttavia c’è un’immensa ansia di redenzione in Italia - e in particolare di redenzione attraverso la Legge - che si esprime in vari modi e ha i suoi protagonisti solitari, cocciuti, impavidi. Il desiderio di redenzione è passione civile, non solo religiosa. Ne furono pervasi scrittori del ‘900 come Walter Benjamin e Hermann Broch, durante il nazismo. In Italia ne ebbero sete uomini come Borsellino, Falcone, Ambrosoli, Pasolini, e oggi Roberto Saviano. È strano come i loro vocabolari si somiglino. Borsellino sognava il «fresco profumo di libertà», contro «il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, della complicità».
E altri sognarono aria pulita e uno Stato riformato. Checché ne dicano i sondaggi non c’è italiano, credo, che non aneli a quell’aria pulita e a quel fresco profumo.
«La Stampa» del 30 agosto 2009
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