Il massmediologo Andrew Keen mette in guardia: «Internet è un ottimo strumento, ma lo 'street journalism' è un’idea fallace: non basta 'dire qualcosa' su un blog per fare informazione»
di Vincenzo Grienti
«Non solo la rivoluzione del Web 2.0 sta distruggendo la nostra cultura, ma sta anche generando nuove e celate oligarchie di figure mediatiche potenti e influenti che non hanno il senso di responsabilità delle tradizionali élite culturali. Occorre, dunque, mettere le cose in chiaro e spiegare a chi sta fuori dalla Silicon Valley cosa sta realmente succedendo». È immediato e diretto Andrew Keen, americano che vive Berkeley, in California, autore di The Cult of the Amateur, approdato nel nostro Paese con il titolo Dilettanti.com. Come la rivoluzione del Web 2.0 sta uccidendo la nostra cultura e distruggendo la nostra economia (De Agostini, paigne 286, euro 15,00) e tradotto in quindici lingue in tutte il mondo. «Ho scritto questo libro perché ho sentito la necessità di sfatare il falso mito che aleggia intorno alla Silicon Valley. Molta gente qui ritiene che la tecnologia rende più ricca e più democratica la cultura, ma io ho constatato che è vero esattamente l’opposto».
Quali sono secondo lei le opportunità e i rischi che si nascondono dietro al mondo dei 'social network' e del Web 2.0 in particolare? Forse questa seconda fase del web sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia? «La grande opportunità dei social network e del web 2.0 è di rivitalizzare la nostra cultura. In qualche misura questo è stato fatto. Sono felice che i media tradizionali siano stati costretti dalla concorrenza di internet a trasformarsi in mezzi più animati e rilevanti. Il problema tuttavia è che il web 2.0 ha reso libero il core business della new economy. Le società del Web 2.0 stanno tutte costruendo modelli di mercato basati sul libero contenuto generato direttamente dall’utente, ma poi vendono pubblicità contro questo contenuto. È difficile competere con il libero mercato, specialmente se, come accade nei giornali tradizionali, bisogna pagare i reporter per il loro lavoro. Quindi i giornali tradizionali e le riviste si stanno arrovellando il cervello per cercare un nuovo modello di mercato percorribile nella libera economia. In America questa situazione è sfociata in una profonda crisi economica di tutti i media tradizionali, dalle riviste ai quotidiani agli editori ai network televisivi».
Questo cosa significa? «Non tutta questa crisi è negativa, specialmente se essa conduce all’emergere di nuove e solide società giornalistiche, ma questo non sembra che stia avvenendo. YouTube per esempio, il più famoso dei network web 2.0 televisivi, è totalmente infruttuoso, improduttivo. Così come i social network più recenti come Twitter che non hanno ancora un modello di mercato».
Nel suo libro descrive il 'flog', il fenomeno 'splog' e non è molto d’accordo con il mondo dei 'blog'. Perché? «La mia disapprovazione dei blog è basata sul mio disgusto per la cultura contemporanea in cui dire qualsiasi cosa è diventata un obbligo, uno status symbol, per decine di milioni di persone comuni. I blog – che sono dei diari online – hanno pervaso qualsiasi cosa. Così mentre noi siamo impegnati ad esprimere noi stessi, diffondendo a tutti i nostri messaggi personali, non leggiamo niente di quello che la gente più esperta di noi scrive su temi importanti. Questo è il risultato di una cultura che io chiamo narcisismo telematico in cui la gente considera più importante diffondere a tutto il mondo che cosa mangia per colazione piuttosto che leggere il giornale o ascoltare la propria radio. Questo narcisismo telematico non deve essere biasimato come fenomeno dovuto alla tecnologia o a internet. È un problema culturale latente nella società post-industriale che è stato tirato fuori prepotentemente dallo sviluppo delle tecnologie che permettono di generare contenuti da soli e da internet».
Un’ampia parte del suo libro approfondisce il tema del 'citizen journalism' e dei rischi che questo fenomeno possa procurare per il giornalismo tradizionale. Non pensa che sia il frutto della normale evoluzione di una professione che si interfaccia con un mondo caratterizzato dai new media come YouTube, MySpace, Facebook e Twitter? «Giornalismo cittadino è una denominazione non corretta. I buoni cittadini non sono necessariamente buoni giornalisti e i buoni giornalisti senza dubbio non sono necessariamente buoni cittadini. Il giornalismo è sempre stato un mestiere, una professione, non una vocazione. Il problema comunque è che sta minando le sue fondamenta economiche. Stiamo trasformando il giornalismo in vocazione moralista. Poiché moltissimi giornalisti perdono il loro lavoro ed è sempre più difficile fare soldi come giornalisti, la sola gente disposta a diventare giornalista saranno comunitari, filantropi, surrogati di cittadini che vedono il giornalismo come una chiamata morale. Così, invece, di quella che si chiama normale evoluzione della professionalità dai giornali tradizionali al citizen journalism , noi stiamo assistendo al passaggio da una élite professionale a una nuova élite dilettanti giornalisti impoveriti con le proprie agende politiche e culturali. Questi giornalisti non hanno editori e non sono affidabili e trasparenti come tradizionali assunti dagli editori».
Lei sostiene che esiste un confine tra pubblico e autore, tra fatti e finzione, tra invenzione e realtà. Tutto ciò produce quello che lei chiama 'il culto del dilettante'. Cosa fare per non diventare 'adepti' di questo nuovo culto? «Non dobbiamo lasciarci abbindolare dal culto del dilettante, con la sua diffusione della cultura 'da banco', il suo abbraccio rousseano dell’innocenza e della giovinezza. Competenza e sapere, cosa che dobbiamo ricordare a noi stessi, sono generalmente il risultato dell’esperienza e del mestiere, dell’impegno di una vita teso alla conoscenza e all’atto creativo. Dobbiamo accettare la spesso sconfortante verità che il talento è universalmente distribuito e che le opinioni della maggior parte della gente non sono interessanti né hanno valore per la restante parte. Il rimedio è di continuare a sostenere i mezzi a pagamento privati con scrittori di talento, giornalisti, editorialisti, commentatori e produttori cinematografici. Il rimedio è comperare i giornali, comperare i libri, pagare per la musica e i film. Se noi questo lo facciamo online o no non ha importanza. Io sono assolutamente a favore di internet come distributore di piattaforme di contenuti fino a quando questo sostiene un sistema accettabile di una classe professionale creativa».
«Avvenire» del 15 agosto 2009
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