Adulare le donne e depersonalizzarle, cioè il professor Veronesi
di Alessandro Giuli
Se oggi esistesse una dottoressa Ronsenberg e avesse le stesse disponibilità toccate in sorte alla versione originale maschile, il nazista Alfred, sarebbe orgogliosa di Umberto Veronesi e del suo superomismo femminile (superdonnismo?). Perché nulla sembra più vicino all’eugenetica da bovaro in camice rossobruno dell’articolo con il quale ieri, su Repubblica, il chiarissimo professore vezzeggia l’universo femminile prefigurando un futuro ineluttabilmente dominato dalle donne. La tesi di fondo sarebbe anche banale: conosco le donne perché le ho in cura, ne apprezzo la forza morale sovrastata dalla violenza fisica e culturale dei maschi, ne riconosco il diritto a uscire dalla dialettica tra l’angelo e la strega; ma sopra tutto prevedo che, nel giro di qualche lunazione e con “regole evolute di convivenza civile”, gli uomini finiranno per ammazzarsi fra loro o suicidarsi con regolarità, e finalmente le loro vittime verranno accompagnate al trionfo dal senso della storia. O giù di lì. Il cammino della storia, per Veronesi, non si accontenta della Ru486, s’intreccia invece con la più alta magia tecnoscientifica. Azzarda il professore: “Già oggi una donna può avere un figlio senza scegliere un padre, basta che si rivolga a una banca per la fecondazione. Invece se un uomo vuole un figlio, ha bisogno di una donna disposta ad accogliere il seme nel suo utero e portare a termine una gravidanza”. Fin qui siamo all’esercizio retorico e desentimentalizzato della guerra tra generi, al massimo l’enunciato di Veronesi può muovere il maschio a ribaltare la propria minorità cercando di fabbricarsi una chioccia meccanica che covi l’ovulo fecondato dal suo seme. Ma poi viene il bello, un bello monocolore, un rosa tendente al grigio metallizzato: “Se poi in futuro si arrivasse alla clonazione, la superiorità femminile sarà ancora più evidente: la donna può clonare se stessa e l’uomo no. Non è assurdo allora prevedere un futuro prevalentemente al femminile, come già avviene in altre comunità”. Ha ragione Veronesi, immaginare questo non è assurdo, più che altro è mostruoso e forse nemmeno la donna più ferocemente nemica di se stessa dovrebbe arrivare a tanto. Dietro l’atteggiamento ammiccante dello scienziato assalito dalla questione femminile si svela infine l’adoratore della propria allucinazione seriale. Un’ingegnere genetico devoto al culto dell’amazzone moderna, madre di feti concepiti senza passione amorosa e, quando di troppo, da espellere come calcoli renali. In più queste ombre di donna hanno il vantaggio tremendo di potersi clonare come le pecore Dolly, in omaggio a un meccanicismo disanimato nel quale pure il corpo ha ben poco da esultare.Ecco, a Veronesi dell’anima non deve importargli molto, perché disegna le sue donne come il filosofo novecentesco (suicida) Otto Weininger, per il quale il sesso femminile non è dotato di noumeno, cioè di anima. Ma pure la carne delle donne, tra le mani di Veronesi, diventa una macchina di supremazia spettrale. L’eccelso Nietzsche, di fronte a questo superdonnismo un po’ straccione, potrebbe scrivere un ditirambo derisorio – “Vai dalla donna? Lascia perdere la frusta, porta la Ru486” – e commemorerebbe forse il privilegio femminile di poter essere ora baccante invasata da Dioniso ora sacerdotessa di Apollo. Tutto corpo e tutta anima, entrambi al servizio di una legge chiamata Amore senza la quale non c’è famiglia e comunità né, quel che è peggio, attrazione elementare. Dunque non c’è più vita.L’adulazione dei femministi tecnologizzati alla Veronesi è spesso il vestibolo dell’imbroglio e tradisce un sottaciuto senso di superiorità da parte dell’adulatore. Nella circostanza, il professore di Repubblica non fa neanche una professione obliqua di superiorità patriarcale – una cosa tipo: le donne sono troppo preziose per essere lasciate nelle mani delle donne – si fa estensore di un manifesto inconsapevolmente anti utopistico, modella la creta come un demiurgo al di là del maschio e della femmina, dell’uomo e della donna, della vita e della morte. Probabilmente sa, Veronesi, d’essersi spinto oltre le colonne d’Ercole del senso comune componendo la versione aggiornata e appena più indolore dell’antico “crimine lemnio”, il delitto delle donne di Lemno che, sfidata la collera di Afrodite e ricevutone in cambio il disinteresse degli uomini, folli di rabbia sterminarono la popolazione maschile. Allora, nei tempi remoti, per riparare alla loro empia solitudine ferina le lemnie ebbero bisogno dello sbarco dell’eroe Giasone e dei suoi vigorosi Argonauti. Domani, nel futuro indovinato da Veronesi, alle superdonne basterebbero riserve di sperma sintetizzato in laboratorio e tutt’al più qualche fuco sterile per eventuali scappatelle con il passato. Ma oggi? Oggi l’eugenismo traffica con quel che c’è: uomini devirilizzati, corazzati all’esterno e dentro molli come crostacei, che incoraggiano le donne alla supplenza; donne defemminilizzate che spingono mezzi uomini alla fuga verso simulacri femminili virtuali. Un ampio mercato di potenziali ipocondriaci è in attesa che qualcuno trovi il nome giusto per il nuovo malanno. L’eugenista alla Veronesi non deve fare altro che rivestire il proprio sogno/incubo con una qualsiasi teologia mondanizzata della liberazione – sessuale, etica o genericamente umanitaria – e a quel punto la sua creatura troverà gradita ospitalità sullo scaffale del consumo culturale di massa.
"Il Foglio" dell'11 agosto 2009
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