«Questa è un’epoca di consumismo. Ma la felicità è in ciò che basta per vivere». Parla la poetessa Alda Merini
Di Luigi Vaccari
Di Luigi Vaccari
«Sono sempre in casa. Non parlo più. E non ci vedo più. Ho fatto voto di sobrietà», sorride, al telefono, Alda Merini, una delle voci più alte della poesia italiana ed europea del Novecento, scrittrice notevole di aforismi e di racconti. «Non è un’epoca in cui si può parlare di sobrietà, ma di consumismo», dice. «La sobrietà è ciò che è già nel proprio corpo e ciò che basta per vivere, tenuto conto che il corpo è il custode dell’anima. Non va accontentato in tutti i suoi movimenti interiori, no? Sant’Ignazio di Loyola, il religioso spagnolo vissuto nel Cinquecento, si chiede: 'Chi mi libererà da questo corpo di morte?'. Io vedo che, alla mia età, un momento ho fame, un momento ho sete: è un corpo capriccioso, dove c’è una specie di piccolo demonio che porta all’eccesso. La sobrietà è calcolare quanto serve per vivere: con la sobrietà si raggiunge la serenità, l’equilibrio interiore e l’equilibrio mentale. Quando uno è ubriaco, non è sobrio; è anche disarmonico. Io sono una donna golosissima, per esempio, mi butto sui gelatini…». E dopo una pausa: «Devo sempre far capo al manicomio, dove ho trovato un popolo di diseredati, ho imparato la sobrietà e ho incontrato la felicità. Il manicomio è stata una grande scuola, credo». Alda Merini è nata a Milano, dove vive in una casa di Porta Ticinese, nel 1931. Ha esordito a 15 anni, sotto la guida di Giacinto Spagnoletti. A 16 subentrano «le prime ombre della sua mente» che negli anni Sessanta la porteranno a fare l’esperienza del manicomio e a un periodo d’isolamento e di silenzio. Ha pubblicato un centinaio di libri con i più svariati editori, anche piccoli; alcune sue poesie sono state cantate da Milva; nell’ultimo decennio particolarmente apprezzato è il carattere mistico e religioso della sua poetica.
Recentemente sono nati un comitato e un gruppo su Facebook perché le sia assegnato il Nobel.
Qual è oggi, in tempo di crisi economica, il rapporto degli italiani con la sobrietà?
«È un popolo molto scorretto. Stanno tentando di parlare un unico linguaggio. Ma probabilmente non hanno maestri validi, campioni di vera moralità. Moralità non vuol dire castigare il corpo: vuol dire rettitudine. Gli italiani non hanno una morale personale, perché nessuno gliel’ha insegnata… Non la troveranno certo nella poesia… Pensavo proprio oggi a Ludwig van Beethoven, che era sordo, sporco, pidocchioso… Io, quando creo raggiungo dei livelli di felicità che… Forse è quello che vorrebbero imparare, eh? Ma è un dono alto di Dio…. Chiaro che, dopo aver composto una bellissima musica, si può dire di aver toccato un po’ il Paradiso».
Perché nessuno, esclusi i poveri che sono sempre più poveri, riesce a contentarsi entro i confini della necessità e della sufficienza?
«Perché noi siamo usciti dalla guerra: da uno stato di povertà, fin dall’infanzia. E vorremmo dare ai nostri figli quello che non abbiamo avuto. L’errore è tutto lì. Nelle famiglie, poi, c’è molta ignoranza: bambini che non sono seguiti a scuola, ma hanno la bambinaia, la colf… Tutto questo manierismo… Non ci sono più le madri, ecco: concedono ai figli tutti i capricci, cosa dice lei? I figli non hanno più una guida nella famiglia. Le donne per farsi notare devono addirittura denudarsi, e questo non è bello. La stupidità non ha confini e non ha limiti».
Come mai nessuno desidera ciò che ha?
«Sono una grande bevitrice di Coca Cola: mi piace, dicono che sostiene il cuore, ma è talmente dolce che un bicchiere tira l’altro (sorride). Bisogna fermarsi in tempo. È molto difficile. Sono una grande fumatrice. Ho dei vizi anch’io: li ho avuti, li ho coltivati».
Nei giornali e nelle televisioni, nel loro linguaggio, vede qualche scampolo di sobrietà?
«Parlano sempre di politica… Ho lavorato con Giovanni Nuti in Poema della croce, l’abbiamo portato in scena al Duomo… Mi vengono in mente le gemelle Alice ed Ellen Kessler…; il vecchio varietà televisivo era artistico e divertente…; molti avevano fatto l’Accademia e avevano imparato. Adesso non lo so. Trovo sconcio quello che fa Madonna, per esempio, a cominciare dal nome».
La sobrietà può prescindere dalla solidarietà?
«La sobrietà è un fatto morale. Quando uno è sobrio, ha tempo di ascoltare gli altri. Se pensa soltanto a riempirsi lo stomaco, detto anche in senso metaforico, non ha tempo neanche per se stesso. Diventa una specie di mezzo animale. Bisogna limitare il bisogno fisico, non fare del corpo un somaro».
Qualcuno raccoglierà l’invito a limitare gli eccessi e a praticare comportamenti e stili di vita morigerati?
«Non si crede più nel Paradiso, in quello che ci aspetterà dopo. Si pensa che tutto finisca qui. E non si vuole rinunciare a niente, si vuole stare bene qui. Si ha una grande paura della morte, che si cerca di evitare, mentre è una grande, fedele compagna. Bisogna amarla, la morte, è la conseguenza della vita. Non sono edotta in materia, ma ricordo quando andavo al catechismo, per la prima comunione, c’era una signorina, e quelle tre regole che mi ha insegnato mi son bastate per tutta la vita. Non si vive di solo pane, ecco: questo è molto importante. Perché, quando hai riempito lo stomaco, la mente alle volte urla: reclama dell’altro. Bisogna cercare di fare d’ogni parola un giardino, dove fioriscan delle rose: delle rose di attenzione per gli altri».
Alda Merini racconta che è stata sobria fin da bambina. Se la madre le dava un piatto di risotto, o di qualunque altra cosa, ne prendeva la metà: per educare il corpo. «Mi autoeducavo». La madre la riempiva di giochi, lei prendeva un giochino da niente che le piaceva e basta. «Tendeva a viziarmi, ma io non glielo lasciavo fare». Si depaupera anche adesso. «Mi spoglio dell’eccesso, del superfluo, per poi ricominciare a lavorare». Se si adagiasse nel benessere, non lavorerebbe più. «Tettamanzi dice anche una grande verità: la carità non dev’essere sprezzante, non deve umiliare. La “caritas” non va sentita come un obbligo. È molto difficile essere caritatevoli, sa? Non si deve offendere. Ho incontrato persone che mi hanno reso abiti firmati, come a dire: “Tu non sei più importante di me”. Si sono sentite offese. Non era questa la mia intenzione. Un frate, che era un amico, una volta mi ha detto: “Ho dato un panino col prosciutto a un povero. Ha buttato via il pane”. Ho risposto: “A lei non deve interessare: gli ha dato il panino, ne ha fatto quel che ha voluto”. Bisogna regalare, senza aspettarsi nulla. Altrimenti non è più carità, che è amore. Ho amici poveri che vengono a cercarmi. Tantissimi». Lei è stata sobria anche negli affetti? «Negli affetti sono stata una passionale. E ho sofferto molto. Anche perché ho amato uomini che, di solito, erano molto ambiziosi. Ho perdonato la loro ambizione».
"Avvenire" del 12 agosto 2009
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