Lo psicoterapeuta Claudio Risé: «Non è più la 'sbronza' di una sera, ma l’abitudine a evitare sistematicamente la realtà»
di Enrico Lenzi
di Enrico Lenzi
«Se non si prende atto della diffusione delle sostanze stupefacenti in quasi la metà dei nostri giovani, non si affronta realisticamente quella che chiamiamo emergenza educativa». Non usa giri di parole Claudio Risé, psicoterapeuta e psicologo. «Non si possono ignorare in questo dibattito i molti problemi comportamentali e psichici che riscontriamo in una fetta della popolazione giovanile» aggiunge. Nel mirino del psicoterapeuta vi è in particolare la diffusione della cannabis, «considerata una droga leggera, quasi facesse meno male delle altre, mentre al contrario la letteratura medica internazionale dice con chiarezza le devastazioni psicologiche e cerebrali che genera». E cita indagini e studi dell’Organizzazione mondiale della sanità, che parlano «di un consumo di cannabis già intorno ai tredici anni e comunque prima dei quindici. Le ricerche psichiatriche hanno dimostrato come l’assunzione a quell’età aumenti fortemente il rischio, a partire dai cinque anni successi, dello sviluppo di gravi patologie psichiatriche: psicosi e schizofrenia».
Con ripercussioni anche sulla formazione di questi giovani? «Certamente. Persone alterate psichicamente non sono in grado di recepire in modo efficace input valoriali e comportamentali. Ecco perché è sempre più urgente lanciare campagne informative sui reali pericoli di queste sostanze. Come hanno fatto altri Paesi, ma l’Italia non affronta la questione».
Secondo le ricerche, nel nostro Paese un terzo degli adolescenti farebbe uso di cannabis. Numeri impressionanti che, però, farebbero immaginare una situazione sociale decisamente più devastata rispetto a quella che vediamo. Non c’è forse dell’esagerazione? «Anzi. In cronaca finiscono i casi estremi. La quotidianità delle famiglie italiane è fatta dai moltissimi casi nascosti, migliaia di giovani che vivono il malessere quotidiano, mollando gli studi, con pessime relazioni familiari, comportamenti reattivi alternati a depressione. Migliaia di genitori e docenti possono raccontare le loro storie».
Quale compito assegna alla scuola? «Quello di informare correttamente. Sfatando il mito della droga leggera, diffondendo il documento dell’Istituto superiore di sanità intitolato: La cannabis non è una droga leggera. Facendo conoscere le ricerche delle grandi organizzazioni internazionali della salute sulle conseguenze della cannabis. Ci sono docenti che già si impegnano, come ho riscontrato presentando il mio libro Cannabis. Come perdere la testa e a volte la vita. Un testo con centinaia di precisi riferimenti alle ricerche disponibili».
A quale età ritiene che la scuola debba iniziare ad affrontare la questione? «Viste le statistiche, si potrebbe iniziare già nell’ultimo biennio delle elementari. Del resto per questi ragazzini, il cosiddetto 'sballo' è dietro l’angolo. E con lui anche il pericolo».
Eppure lo 'sballo' viene considerato quasi un elemento del divertimento giovanile. «Sbagliando. Forse un tempo lo 'sballo' era il rimediare una sbronza durante una serata. Oggi è l’abitudine ad evitare sistematicamente il confronto con la realtà, abusando di sostanze intossicanti, che alterano e creano dipendenza. I ragazzi di Nettuno che hanno dato fuoco a una persona hanno detto di ricercare 'sensazioni sempre più forti'. Questo è indotto dalle alterazioni cerebrali per la dipendenza da cannabis».
Dunque giovani incapaci di frenare le proprie azioni, a causa della droga. Ma così non si rischia di mitigare la loro responsabilità negli atti compiuti? «Come terapeuta non posso considerare loro, malati, i primi responsabili. La principale responsabilità è degli adulti, che non forniscono una corretta informazione sui rischi. Gli adulti devono spiegare e trasmettere informazioni, norme e regole ai giovani, i quali hanno una fisiologica spinta trasgressiva, anche come confronto tra il loro io in formazione, e il mondo circostante».
Ritiene che gli adulti di oggi siano in grado di affrontare questo compito? «Se lo si vuole fare non è così complicato. Negli Stati Uniti, per esempio, dal 2000 è stata fatta una forte campagna informativa sull’uso della cannabis e in quasi un decennio il suo consumo si è ridotto del 25%, abbassando anche quello dell’alcol e di altre droghe. Come vede quando il mondo degli adulti vuole, i risultati arrivano. Ma in Italia non lo si fa: con Malta è ultima in Europa sulla lotta alla droga».
Per quale motivo? «Manca la capacità (e la passione) di mettersi in discussione. Molti dei genitori di oggi vengono dalle generazioni dagli anni Sessanta in poi, e non hanno saputo rivedere con occhio critico la loro giovinezza, compreso gli spinelli e la cannabis. Sotto questo profilo se di emergenza educativa dobbiamo parlare, si potrebbe dire che riguarda in primo luogo proprio il mondo degli adulti».
Allora a chi, secondo lei, spetta compiere il primo passo per invertire la rotta? «Di certo nelle famiglie e nella scuola oggi cresce la consapevolezza dell’esistenza di questo malessere e della necessità di affrontarlo. Tra le parti in causa non dimenticherei i mass-media, indispensabili per una campagna informativa seria e corretta, finora mai fatta, e i politici, gli unici fra quelli dei grandi Paesi a sottrarsi all’impegno di informare i cittadini su questi rischi».
"Avvenire" del 12 agosto 2009
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