Perché mai, Veronesi, dovremmo rinunciare alla spalla di un uomo?
di Marina Terragni
Su questa faccenda dell’autodeterminazione della donna c’è un grosso equivoco. Una donna “autodeterminata” non è necessariamente una dominatrix che ha reciso tutti i suoi legami. Per come la vedo io è semplicemente una che cerca di stare liberamente al mondo come donna, e non nonostante questo. Dicendo “come donna”, tra le tante altre cose intendo soprattutto poter stare al mondo come una che può essere madre, potenzialità di una certa rilevanza che, certo, comporta il fastidio della relazione, della dipendenza, del legame. Un’idea di libertà strana e spuria, sempre impacciata nei suoi movimenti dall’altro e dall’amore. E invece quando gli uomini, anche con le migliori intenzioni, si mettono a parlare delle donne e della loro libertà, finiscono per parlarne come di una strana specie di maschi che merita, a certe condizioni, di essere inclusa nel loro assoluto. O addirittura di dominarlo. Siamo tutte davvero grate al professor Umberto Veronesi. Per noi donne ha fatto molto, ha dedicato la sua vita di scienziato a studiare un male femminile che fino a pochi decenni fa era senza scampo, e ci ha insegnato a difendercene. Ma quando scrive (“La conquista della Ru486 e la forza delle donne”, Repubblica, 10 agosto) che “le donne non si fermano: la vittoria dell’approvazione della Ru486 è parte di un progetto non scritto di affermazione del loro futuro ruolo”, mi chiedo a quale altro male ci stia condannando, e perché. L’aborto non è mai una conquista, con qualunque metodica venga praticato. E’ sempre un dolorosissimo compromesso, il fallimento di un progetto cosciente o inconscio, la corsa della vita che viene fermata sanguinosamente. Io non so se l’aborto con una pillola sia meglio – ovvero meno doloroso, meno traumatico, meno angoscioso, più sicuro, o almeno più conveniente per la spesa pubblica – dell’aborto chirurgico. Ma so per certo, il professor Veronesi mi deve credere perché sono una donna e lo so, che l’aborto è sempre un fatto schifoso, per quel bambino, per la madre abortita insieme a lui, per il padre che tante volte condanna la madre a quel gesto, o magari no, non lo vorrebbe, ma deve accettare, per il medico che lo pratica. Per tutta quanta l’allegra combriccola. E so anche che tutto – tutto – quello che può essere fatto perché ci sia anche un solo aborto in meno deve essere fatto: un lavoro paziente e meticoloso a favore dell’accoglienza e della fiducia nella vita, perché il bilancio tra ciò che nasce e ciò che muore torni in equilibrio, essendo che la felicità che possiamo sperimentare nella nostra vita è proporzionale alla quota di aurora e di nascita – non solo di creature, ma anche di quelle – che ci tocca in sorte. Nel suo intervento su “Repubblica” Umberto Veronesi delinea le magnifiche sorti e progressive dell’umanità femminile. Il suo pensiero gli appare “per molti aspetti superiore a quello maschile”. Il professore proclama “la realtà storicamente inarrestabile” della parità tra i sessi e si arrovella su quello che definisce “un bisticcio di fondo da risolvere”: se la donna “sarà pari all’uomo nei ruoli decisionali, che farà della sua necessità biologica di procreare e accudire i figli?”. Ecco, che cosa ne farà? Al professore non viene nemmeno in mente che è lo spazio pubblico a doversi ripensare e riorganizzare a seguito della novità della cittadinanza femminile, fino a poco tempo fa non data. Che è questo poter essere madri che segna le donne a dover essere rimesso al centro dell’organizzazione della polis – e quindi del lavoro, della politica, del mondo – dopo che per millenni ne è stato tenuto ai margini. E invece no: secondo il professore “è la donna che dovrà scegliere e ridefinirsi”. Bontà sua, ammette che “la soluzione non può essere quella di espropriare le donne della loro femminilità, ma è certo che una conquista razionale attende le donne di questa generazione”. L’aborto con la Ru486 – comodo, efficace, non invasivo – fa parte di questa nuova razionalità. Veronesi parla anche di “diritto all’interruzione di una gravidanza non voluta”, diritto che nessun femminismo si è mai nemmeno sognato di ipostatizzare – l’unico diritto rivendicato, diciamo così, è stato solo quello di non crepare in qualche sgabuzzino – e si diffonde infine su quell’altro simmetrico diritto, quello ad avere un figlio come e quando si vuole: perfino Mary Warnock, madre della liberalissima bioetica anglosassone, ha chiarito con ragionamenti piuttosto stringenti che il diritto ad avere figli non ha alcun fondamento. Diritto che invece, secondo Veronesi, una donna può lietamente esercitare “anche senza scegliere un padre, basta che si rivolga a una banca per la fecondazione”. Ma presto non sarà più necessario, perché “la donna può clonare se stessa e l’uomo no”. Uno spaventoso paese dei Balocchi in cui la donna, Puella Aeterna, potrà giocare divinamente con se stessa senza mai la noia di doversi misurare con l’Altro. E perfino riprodursi da sé – oddio, e se poi ti nasce un maschio? – Un nuovo fondamento archetipico per le fantasie, già attualissime, di tutte quelle ragazzine che in giro per l’occidente sognano di farsi il bambino da sole, o fingono un provvisorio sogno d’amore per poi espellere l’Altro non appena dà segni della sua alterità. Ed ecco tutte quelle famigline asfittiche e infelici, la mamma e il suo bambino, l’una carceriere dell’altro, senza nessun terzo a fare il lavoro di necessario incomodo nella simbiosi fatale. Oppure – libertà alternativa – nessun bambino, l’indipendenza totale, l’automutilazione di quell’Altro di cui l’umanità femminile, in questo sì migliore, ha sempre fatto il suo bizzarro baricentro, spostato fuori di sé. Ho letto Umberto Veronesi e ho pensato: ecco un uomo del secolo scorso, un medico che molto ha dato alle donne e altrettanto – a titolo risarcitorio? – sembra voler togliere loro. Che disegna un futuro terribile applicando con zelo logiche che appartengono al passato prossimo dell’emancipazione, già superate da un pensiero femminile che il professore, il quale pure dice di conoscere molto bene le donne, evidentemente non si è dato la pena di ascoltare. Non ha notizia del pensiero della differenza, della lotta delle donne contro l’omologazione al modello maschile unico. Non percepisce il loro desiderio. Altrimenti, da grande vecchio qual è, alle ragazze direbbe che l’unica sola e vera pari opportunità è quella di poter stare liberamente al mondo ciascuna e ciascuno secondo il sesso del quale si è nate e nati, perché il nostro corpo spirituale è tutto ciò che siamo. Direbbe alle ragazze di non condannarsi alla solitudine, perché non vi è alcuna ragione di infliggersi questo supplizio, di cercarsi uno sposo e di coltivare l’amore per la sua differenza, accettando il conflitto e ammirandolo come Altro, facendolo diventare l’uomo che sarà, autorizzandolo a essere il padre del figlio che insieme avranno fatto nascere, e insegnando al figlio che quello è suo padre. Direbbe di fare l’amore con lui e di appoggiarsi con fiducia alla sua spalla, e di fare in modo che la cosa duri il più a lungo possibile. Direbbe, da medico, di farli presto, i bambini, non quando hai avuto il permesso dal capufficio e quando Mr Right si sente finalmente pronto, perché poi i bambini non vengono più. Mi piacerebbe domandare al professor Veronesi per quale ragione vorrebbe che il suo sesso fosse definitivamente fatto fuori. E perché, anziché parlare in modo universale e astratto dei desideri delle donne, non ci ha parlato in modo più toccante dei suoi propri desideri. Visto che non l’ha fatto, ci tocca intra-leggerli in quello che scrive. Perché non ci ha parlato del suo rapporto con le donne, di quel mix di paura-desiderio-ripugnanza che altri grandi vecchi, soprattutto nella letteratura, hanno più volte confessato? Perché sembra non confidare più nell’amore e nell’amicizia tra i sessi? Che fine fanno l’eros e la felicità? Perché non fa propaganda a questo enorme bene, pensando ai suoi nipoti maschi a cui non resterà, a quanto dice, che pagare non più solo per una vagina in cui rifugiarsi, ma anche per un utero in cui riprodursi? Come fa a non morire di freddo, in questo scenario glaciale? Che cosa gli fa pensare alle donne come a delle affascinanti dominatrix? Io sono una donna, e non voglio affatto essere la Grande Sorella sanguinaria a cui cavallerescamente il professore rende omaggio. Non voglio affatto appartenere alla razza delle più forti e delle abortitrici più o meno autogestite. Voglio poter pensare al mondo a modo mio, in un ordine di rapporti diverso dai rapporti di forza. Non si tratta di sostituire il dominatore con la dominatrice: dominatrice che peraltro è già stata, nella storia o nel mito, prima di essere a sua volta schiacciata. Tutto questo, l’uno contro l’altra, è già capitato. E’ venuto il momento di inventarsi qualcosa d’altro. Siamo al terzo tempo del match tra i sessi, il tempo del due, dell’amicizia e dell’ammirazione. Del resto lo scrive anche il professore: “Quando si scatena il caos è la donna che riporta l’ordine: nei pensieri, nei rapporti umani, nell’ambiente e nella società”. Con la sua autorizzazione, sto cercando di fare proprio questo: rimettere un po’ di ordine nel mondo perverso che lei ha sognato e ha rappresentato. Solo finalmente in due, e non più nella logica dell’Uno – o Una che sia – salvo eccedenze, che potremo essere meno infelici. E un’ultima domanda, a corollario: perché mai sarebbe laico e di sinistra sognare questo incubo?
"Il Foglio" del 12 agosto 2009
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