di Laura Silvia Battaglia
È il destino di chi non si presta a nessuna classificazione. Di chi ritiene lecito cambiare idea politica senza essere un protagonista politico. Di chi preferisce rimanere sottotraccia perché non ha bisogno del clamore e del consenso per affermare se stesso. Così non stupisce il fatto che le celebrazioni per il centenario della nascita del poeta Alfonso Gatto (Salerno, 17 luglio 1909 – Capalbio, 8 marzo 1976) siano state riprese in sordina dal mondo culturale. Al punto tale che, se si escludono le celebrazioni salernitane e il reading di Jack Hirschman, che ha tradotto in angloamericano «Storia delle vittime», poco si è visto sulle pagine dei quotidiani. Il fatto è che Gatto è stato sempre snobbato. Già abbiamo dovuto attendere trent’anni dalla morte per vedere pubblicato, nel 2006, un Oscar Mondadori curato da Silvio Ramat con tutte le sue poesie. Fino a tre anni fa, infatti, chi avesse voluto sapere qualcosa di più di questo poeta emigrato dopo il 1926 da Napoli, dove frequentò l’università senza completarla, si doveva accontentare solo della classificazione di «ermetico, fondatore della rivista Campo di Marte», e di 99 componimenti, pubblicati da Jaca Book. È importante sapere che Gatto fece di tutto nella vita (fattorino, insegnante, commesso di libreria, giornalista), senza disdegnare la politica, praticata da antifascista e 'resistente' prima (nel 1936 trascorse sei mesi nel carcere di San Vittore a Milano) fino a diventare un dissidente del partito comunista poi (nel 1951). Eppure, nonostante questa nuova edizione Mondadori da ben 736 componimenti abbia contribuito ad aggiustare il tiro, se il grande pubblico si ricorda ancora di Gatto, sarà più per il portiere Boccaccio o per Melampo, il 'bambino di gomma'. Meno per i suoi versi morali, politici, per le poesie della resistenza per le quali Giacinto Spagnoletti ebbe a dire che quello di Gatto «è il solo temperamento di moralista che si sia affacciato, dopo Cardarelli, nella lirica d’oggi. Egli è il solo che abbia scalzato i motivi interiori dalla loro vernice patetica, per fare loro acquistare un sapore di verità rimproverata, cogliendo al vivo la parte di noi stessi che risponde all’ansia del tempo». Gatto scelse per sé il registro dell’inattualità. E, forse, la sua inattualità sta proprio qui: nell’essere un poeta dal canto sommesso, fioco, sussurrato, votato a quel 'vergine stupore' con cui rivendica uno sguardo diverso sulle cose presenti e passate. Suona come un contrappasso, dunque, questa dimenticanza, per un poeta che aveva esordito nel segno dell’oltre e dell’oltre la morte, nel culto della memoria dei congiunti e di un mondo sepolto di cui sapeva cogliere la continuità e la necessità anche per chi rimane. I tempi cambiano e nulla oggi esiste se non in quanto avvertito come compresente, ossessivo, prepotente, necessario nell’attimo. Dopo, chissà. Figurarsi la poesia, e la poesia di uno che la spiegava come una cosa «che appartiene agli uomini che non si difendono, che passano nella vita senza appropriarsene, amandola anche per gli altri che credono di averla spesa o di poterla spendere senza mai riuscire nemmeno a destarla». Nel centenario della nascita, davvero troppo pochi gli omaggi d’arrivederci al poeta degli addii.
"Avvenire" del 15 agosto 2009
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