Di Irene Bignardi
Pensare che Fernanda Pivano non c' è più, che non c' è più la Nanda, come la chiamavano gli amici e chi le voleva bene, dà una strana sensazione: come se si fosse interrotto un filo diretto, un rapporto vitale e viscerale con un' esperienza, un pezzo di storia, un patrimonio letterario e culturale. Questa esperienza e questo pezzo di storia è il rapporto dell' Italia, e non solo, con la letteratura americana di mezzo secolo, che ha trovato in Fernanda Pivano l' ambasciatrice, la coprotagonista, e, per così dire, la levatrice. Perché Fernanda Pivano, che se ne è andata ieri a Milano, a novantadue anni (era nata il 18 luglio del 1917), è stata molto di più che la grande traduttrice, l' amica di tutto un mondo di letterati e di poeti, la signora che aveva conosciuto tutti e che su tutti - da Hemingway a Ginsberg, da Gregory Corso a Pavese - aveva una storia di prima mano da raccontare. E' stata la lettrice appassionata, la consigliera, la suggeritrice, l' eminenza grigia di un mondo culturale che attorno a lei e secondo i suoi consigli e le sue scoperte si è mosso per decretare notorietà e successi, linee letterarie e cose da pubblicare. E' curioso che Fernanda Pivano parlasse così poco di sé. Intendiamoci, «Nanda» parlava, e raccontava, generosamente e apertamente di quello che aveva fatto e di ciò che pensava. Ma parlava soprattutto degli altri, mettendosi apparentemente al centro del discorso e dell' aneddoto ma come un necessario coprotagonista che permetteva, con la sua esistenza, le sue storie, la sua testimonianza, di rievocare gli altri, i grandi della letteratura che sono stati i suoi amici, e poi le sue scoperte, i suoi protetti, da Papa Hemingway, appunto (e i ricordi finivano sempre per affermare che no, non c' era mai stato niente fra di loro, nemmeno un bacio, nonostante la leggenda) a Jay Mc Inerney, da Pavese a Don De Lillo. Ha conosciuto tutti, nella sua lunga e ricca vita, Fernanda Pivano. E troppo spesso l' aneddotica su questa vita e questi incontri ha sopraffatto e messo in ombra la vera qualità del suo lavoro, la passione onnivora per la lettura e per la lingua inglese - anzi, dovremmo dire una cosa che in teoria non esiste come tale, la lingua americana. Una lingua e una letteratura che è stato Cesare Pavese a insegnarle ad amare, mettendole in mano i testi di L' antologia di Spoon River, di Foglie d' erba di Whitman e l' autobiografia di Sherwood Anderson, fino a che la ragazzina sua allieva non ha deciso, unilateralmente, di tradurre il capolavoro di Edgar Lee Masters, fino a che lui non lo ho scoperto per caso, e fino a che questa traduzione clandestina non è stata presa da Einaudi su suggerimento dello scrittore, diventando anche per l' Italia il classico che è. Fernanda Pivano era nata a Genova, da una famiglia borghese e colta, con un padre banchiere e agente di cambio dalle incerte fortune. A dodici anni la famiglia si era trasferita a Torino, lasciandole una grande nostalgia della luce e degli alberi della sua Liguria. Era carina, molto carina, la giovane Nanda, come ha continuato a esser anche nel corso del tempo, con una grazia un po' da elfo, e la curiosità di una adolescente vorace. A Torino, al Liceo d' Azeglio, ha avuto la straordinaria avventura di essere allieva di Cesare Pavese, che l' ha tirata su a dosi di Momigliano e di De Sanctis e più tardi l' ha introdotta alla letteratura americana (ma nessun amore, ci teneva a dire Fernanda, leggende, come per Hemingway), e le ha insegnato, con la matita rossa e blu in mano, quel mestiere del tradurre che lei avrebbe portato ad altissimi livelli. Nella grigia Torino degli anni di guerra è stata arrestata dalle SS, che avevano trovato nella sede della Einaudi il contratto per la traduzione di Addio alle armi - e raccontava di essere stata liberata perché li aveva imbambolati con le sue chiacchiere. Da Torino è partita, dopo la laurea (per la verità ne aveva due), con una borsa di studio alla volta degli Stati Uniti, dove il suo grand tour è stato un giro delle case degli scrittori che amava - Faulkner, Dos Passos, Hemingway, il cimitero di Edgar Lee Masters. Dall' America, con cui aprì allora un canale di amicizia e di scambio che non si è mai chiuso, è ritornata con un carico di esperienze, di contatti e di conoscenza che ha arricchito la cultura italiana del dopoguerra di voci e di presenze fondamentali. Ha creato amicizie indistruttibili con Hemingway, che di passaggio a Cortina la mandò a chiamare per conoscere la sua audace traduttrice italiana saldando così un rapporto che durerà fino alla morte di «Papa», con Ginsberg, con Jack Kerouace tuttii ragazzi della Beat Generation, con Henry Miller, con Bukowski, con Burroughs. Si potrebbe pensare che, viste queste frequentazioni, anche a Fernanda piacessero i Martini e dintorni. E invece no, resisteva graniticamente, sempre lucida, sempre al servizio del talento degli altri, lontana dall' accademia e vicino ai lettori, cronista e storica di un momento della cultura che ha raccontato, appunto, con la finta civetteria di mettersi al centro delle sue storie letterarie per poi parlare degli altri, «tusitala» (per usare la parola che usavano per Stevenson il narratore) del mondo della scrittura, affabulatrice capace di incantare per ore una platea con i suoi ricordi, parlatrice semplice e mirabilmente diretta. Sempre mettendo in ombra la realtà del suo impressionante lavoro «scientifico», che accumula (vedere la sua bibliografia per credere) traduzioni su traduzioni, testi su testi, libri di ricordi, saggi. Sempre curiosa - basti vedere le sue escursioni nel campo della musica, da De Andrè a Vasco Rossi fino a Jovanotti e Ligabue - , qualche volta difendendo anche la causa sbagliata (gli ultimi Mc Inerney, per esempio). Ma sempre con profonda onestà e generosità. E ricordo ancora il sostegno e i consigli che diede a me, disastrosa traduttrice in erba, in tempi ormai lontanissimi. Con Ettore Sottsass Jr., che aveva sposato e da cui divorziò con profondo dolore, ha formato una coppia di elettrica simpatia. Fernanda non si è mai risposata, ma, dividendo per molti anni la sua vita tra Milano e Roma, sempre pronta a intervenire in pubblico, sempre aperta a trasmettere le sue esperienze, ha trovato ovunque amici, allievi, ammiratori pronti a dividere le sue ore e ad attingere alla sua sapienza. Meno sostegno ha trovato nelle istituzioni, visto che la sua straordinaria biblioteca di trentacinquemila volumi - soprattutto letteratura americana, il meglio che si possa trovare sulla Beat Generation, e poi ritagli, autografi, documenti - esiste ancora e ha trovato una sede solo grazie all' intervento dei privati (la Fondazione Benetton, nello specifico) dopo essere stata rifiutata da molte istituzioni pubbliche. E' stata una gentile, appassionata, vorace, generosa militante della buona letteratura. E la sua scomparsa apre un vuoto che sarà difficile colmare. - IRENE BIGNARDI
«La Repubblica» del 19 agosto 2009
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