Catalogo di idee modeste e casuali
di Ernesto Galli Della Loggia
di Ernesto Galli Della Loggia
Al di là di ogni possibile critica nel merito, quello che specialmente colpisce nel programma per le celebrazioni del 150˚anniversario dell’Unità d’Italia approntate a suo tempo dal governo Prodi e poi fatto proprio dal governo Berlusconi, è l’assoluta casualità delle opere progettate — là un aeroporto, là un parco, qui un auditorium, da un’altra parte un palazzo del cinema — cioè la mancanza di un qualunque nesso, di qualunque concetto unitario inteso a dare un significato all’insieme. La mancanza, in altre parole, di quella cosa che si chiama cultura.
Cultura è una parola da adoperare sempre con estrema cautela, dal momento che tra il pronunciarla e sciacquarsene con sussiego la bocca ce ne corre pochissimo. Ma in questo caso è proprio la parola giusta: se in quel progetto, infatti, manca un’idea, e dunque manca l’anima, è perché vi manca un punto di vista, e cioè vi manca la cultura che è l’unica che in certe materie ne può fornire uno: in questo caso, un punto di vista sull’Italia e sulla sua vicenda storica.
Ad un qualsiasi rapporto tra la politica e la cultura il nostro Paese sembra aver rinunciato ormai da molto tempo. Vi hanno rinunciato con spensieratezza innanzitutto i partiti nuovi della cosiddetta Seconda Repubblica. Nessuno di loro mantiene più un centro studi, una rivista di qualche spessore, una fondazione, una casa editrice, uno straccio di istituzione culturale propria. Alcune di queste cose esistono, semmai, come emanazioni dirette di questo o quel leader, ma fin troppo strumentale ne risulta allora lo scopo: e cioè farsi una sorta di corrente personale, costruirsi una sede dove radunare il proprio seguito ristretto, e, usando quindi il tutto per cercare di assumere una caratura politica, darsi un’aria di pensoso statista, e partecipare con un apposito convegno ogni sei mesi, allo stucchevole dibattito che ci delizia da qualche lustro su «le riforme», «il federalismo», «la legge elettorale» o qualche altro appassionante argomento del genere.
Con la Prima Repubblica le cose andavano in modo diverso: si pensi a cosa rappresentarono in quegli anni l’Istituto Gramsci, una rivista come Mondoperaio, edizioni come quella delle Cinque lune o dell’Avanti!. Ma il forte rapporto allora esistente tra i vari partiti e la cultura (che inevitabilmente era spesso — ma non sempre! — una cultura in senso lato «di partito») non basta a mascherare il dato che oggi ci appare più importante. Cioè che per tutti quei decenni il Paese e i governi che lo rappresentavano si astennero scrupolosamente, tuttavia, dal pensare che la dimensione della nazione e la sua vicenda storico-culturale meritassero di divenire oggetto di qualsivoglia tematizzazione generale, di qualunque raffigurazione o progetto complessivi, di qualunque uso collettivo di cui potesse e dovesse farsi carico l’autorità pubblica. Ossessionati allora e sempre dal fantasma del fascismo e del suo Minculpop, decidemmo —in un Paese come l’Italia!— che politica e cultura non dovessero avere nulla a che fare.
Vale a dire che alla politica italiana non dovesse in alcun modo riguardare la sostanza più vera e profonda della nostra identità storica, e che perciò mai al governo, a qualunque governo, dovesse venire in mente, per carità, di pensare a una politica culturale, di proporre all’interno e all’estero un’idea dell’Italia, di organizzare intorno a tale idea l’attività delle sue amministrazioni.
La sola dimensione che ci siamo permessi, allora e poi, è stata quella frigidamente conservativo- museale. La cultura concepita non già come un che di vivo e attuale, bensì come un insieme di «beni culturali», da affidare ad apposito dicastero ad essi intitolato. La cultura insomma ridotta a catalogo: peraltro anche questa dimensione assai malamente esperita, non solo per ragioni finanziarie ma perché senza un’idea animatrice, senza qualcosa che porti la vita di oggi nelle reliquie di ieri, qualunque passato, qualunque storia, sono prima o poi destinati a deperire e a dissolversi. A differenza di molti altri continuiamo dunque a non avere alcun ministero della Cultura, a non avere cioè alcun autorevole centro propulsivo di iniziative, di idee e di progetti che dicano realmente qualcosa su di noi tanto agli italiani che agli stranieri che s’interessano di noi. E così la Treccani è ormai solo l’ombra di se stessa, i Lincei, la Crusca, le grandi Biblioteche nazionali, le Accademie di arte drammatica e di cinematografia, nel caso migliore languono ma tutte hanno smarrito ogni autentico senso di se stesse e si muovono nella più totale indifferenza dell’esecutivo. Così come languono le due o tre istituzioni culturali che si rivolgono all’estero: la Dante Alighieri, la quale cerca disperatamente di darsi una nuova veste, o gli Istituti italiani di cultura (di cui almeno una metà inutili) a cui il ministero degli Esteri riserva da sempre la parte di mal tollerate Cenerentole. Lo Stato e la politica sembrano aver deciso, insomma, che nel campo della cultura tutto in Italia debba lentamente appassire tra micragna, grigiore burocratico, e un po’ di sottogoverno che non fa mai male. E viene da pensare che se le cose stanno così, allora è assolutamente giusto che il 150˚anniversario dell’Unità sia celebrato, come siamo stati costretti a leggere, anche con la «delocalizzazione del campo di calcio» del comune di Isernia. Al resto, tanto, ci penserà la televisione.
Cultura è una parola da adoperare sempre con estrema cautela, dal momento che tra il pronunciarla e sciacquarsene con sussiego la bocca ce ne corre pochissimo. Ma in questo caso è proprio la parola giusta: se in quel progetto, infatti, manca un’idea, e dunque manca l’anima, è perché vi manca un punto di vista, e cioè vi manca la cultura che è l’unica che in certe materie ne può fornire uno: in questo caso, un punto di vista sull’Italia e sulla sua vicenda storica.
Ad un qualsiasi rapporto tra la politica e la cultura il nostro Paese sembra aver rinunciato ormai da molto tempo. Vi hanno rinunciato con spensieratezza innanzitutto i partiti nuovi della cosiddetta Seconda Repubblica. Nessuno di loro mantiene più un centro studi, una rivista di qualche spessore, una fondazione, una casa editrice, uno straccio di istituzione culturale propria. Alcune di queste cose esistono, semmai, come emanazioni dirette di questo o quel leader, ma fin troppo strumentale ne risulta allora lo scopo: e cioè farsi una sorta di corrente personale, costruirsi una sede dove radunare il proprio seguito ristretto, e, usando quindi il tutto per cercare di assumere una caratura politica, darsi un’aria di pensoso statista, e partecipare con un apposito convegno ogni sei mesi, allo stucchevole dibattito che ci delizia da qualche lustro su «le riforme», «il federalismo», «la legge elettorale» o qualche altro appassionante argomento del genere.
Con la Prima Repubblica le cose andavano in modo diverso: si pensi a cosa rappresentarono in quegli anni l’Istituto Gramsci, una rivista come Mondoperaio, edizioni come quella delle Cinque lune o dell’Avanti!. Ma il forte rapporto allora esistente tra i vari partiti e la cultura (che inevitabilmente era spesso — ma non sempre! — una cultura in senso lato «di partito») non basta a mascherare il dato che oggi ci appare più importante. Cioè che per tutti quei decenni il Paese e i governi che lo rappresentavano si astennero scrupolosamente, tuttavia, dal pensare che la dimensione della nazione e la sua vicenda storico-culturale meritassero di divenire oggetto di qualsivoglia tematizzazione generale, di qualunque raffigurazione o progetto complessivi, di qualunque uso collettivo di cui potesse e dovesse farsi carico l’autorità pubblica. Ossessionati allora e sempre dal fantasma del fascismo e del suo Minculpop, decidemmo —in un Paese come l’Italia!— che politica e cultura non dovessero avere nulla a che fare.
Vale a dire che alla politica italiana non dovesse in alcun modo riguardare la sostanza più vera e profonda della nostra identità storica, e che perciò mai al governo, a qualunque governo, dovesse venire in mente, per carità, di pensare a una politica culturale, di proporre all’interno e all’estero un’idea dell’Italia, di organizzare intorno a tale idea l’attività delle sue amministrazioni.
La sola dimensione che ci siamo permessi, allora e poi, è stata quella frigidamente conservativo- museale. La cultura concepita non già come un che di vivo e attuale, bensì come un insieme di «beni culturali», da affidare ad apposito dicastero ad essi intitolato. La cultura insomma ridotta a catalogo: peraltro anche questa dimensione assai malamente esperita, non solo per ragioni finanziarie ma perché senza un’idea animatrice, senza qualcosa che porti la vita di oggi nelle reliquie di ieri, qualunque passato, qualunque storia, sono prima o poi destinati a deperire e a dissolversi. A differenza di molti altri continuiamo dunque a non avere alcun ministero della Cultura, a non avere cioè alcun autorevole centro propulsivo di iniziative, di idee e di progetti che dicano realmente qualcosa su di noi tanto agli italiani che agli stranieri che s’interessano di noi. E così la Treccani è ormai solo l’ombra di se stessa, i Lincei, la Crusca, le grandi Biblioteche nazionali, le Accademie di arte drammatica e di cinematografia, nel caso migliore languono ma tutte hanno smarrito ogni autentico senso di se stesse e si muovono nella più totale indifferenza dell’esecutivo. Così come languono le due o tre istituzioni culturali che si rivolgono all’estero: la Dante Alighieri, la quale cerca disperatamente di darsi una nuova veste, o gli Istituti italiani di cultura (di cui almeno una metà inutili) a cui il ministero degli Esteri riserva da sempre la parte di mal tollerate Cenerentole. Lo Stato e la politica sembrano aver deciso, insomma, che nel campo della cultura tutto in Italia debba lentamente appassire tra micragna, grigiore burocratico, e un po’ di sottogoverno che non fa mai male. E viene da pensare che se le cose stanno così, allora è assolutamente giusto che il 150˚anniversario dell’Unità sia celebrato, come siamo stati costretti a leggere, anche con la «delocalizzazione del campo di calcio» del comune di Isernia. Al resto, tanto, ci penserà la televisione.
"Corriere della sera" del 9 agosto 2009
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