Quando Dostoevskij e Tolstoj divennero «mistici sovversivi»
di Adriano Dell’Asta
Orwell si era inventato un regime nel quale la storia veniva quotidianamente riscritta, Bradbury aveva narrato la vicenda di un mondo futuro nel quale i pompieri non avrebbero avuto come compito principale quello di spegnere gli incendi, ma quello di bruciare i libri, e il russo Zamjatin aveva dato vita alla figura di una scimmia che non aveva dimenticato il momento in cui l’uomo aveva avuto la meglio su di essa: «La scimmia non se l’è più dimenticato e continua a ricordarselo sino a oggi: provate a darle un libro, e subito comincia a strapparlo, a farlo a pezzi, a insozzarlo».
Tre scrittori e la loro geniale fantasia per arrivare a immaginare quello che è stato non solo il contenuto di una finzione letteraria, ma una storia reale; in effetti c’era già tutto in una banale circolare dell’Nkvd, nella quale si prescriveva di eliminare i libri sgraditi al regime «facendoli a pezzi o bruciandoli» e poi ovviamente eliminando anche le relative schede bibliografiche.
Va precisato che in Urss in molti casi non tutte le opere venivano distrutte e per lo meno alcune copie venivano conservate negli appositi settori speciali chiusi delle grandi biblioteche; resta comunque il fatto che l’opera di distruzione del patrimonio librario russo, portata avanti dal regime sovietico dalla sua nascita alla fine, è stata così eccezionale per quantità e qualità che si è arrivati a coniare un nuovo termine per descrivere il fenomeno: bibliocidio . Il neologismo ne richiama evidentemente un altro, più famoso, quello di genocidio: non è un caso, anche il bibliocidio era caratterizzato da una radicalità assoluta che sembrava non volersi lasciar sfuggire nulla, neppure le tracce dell’esistenza di un libro, di un articolo, di una foto. È diventata proverbiale la storia, anche questa reale, della voce «Berija» nella Grande Enciclopedia Sovietica: quello che era stato il capo della polizia politica sovietica dal 1938 a poco dopo la morte di Stalin era appena stato eliminato fisicamente che subito si cominciò a cercare di eliminarne anche la memoria e così, ai possessori dell’Enciclopedia venne inviato un quartino con un nuovo testo che alla vecchia voce sostituiva una serie di ritocchi alle voci contigue e soprattutto una serie di foto del mar di Bering; il quartino era accompagnato da un fogliettino con queste ineffabili istruzioni per l’uso: «All’abbonato alla Grande Enciclopedia Sovietica. L’editrice scientifica statale 'Grande Enciclopedia Sovietica' raccomanda di togliere dal V tomo della GES le pagine 21, 22, 23 e 24, e anche il ritratto, incollato tra le pagine 22 e 23, al cui posto Vi vengono inviate le pagine con il nuovo testo. Con delle forbici o una lametta da barba si devono tagliare le pagine indicate, conservando vicino alla rilegatura un margine al quale incollare le nuove pagine». Il carattere quasi maniacale di queste istruzioni non deve stupire: è una caratteristica costante e ripetuta sino all’ossessione e al ridicolo, al punto che in un documento degli anni Trenta, insieme con le istruzioni ancor più particolareggiate su come eliminare pagine, articoli, frasi e parole, e accanto all’esortazione a far sì che le parole e le frasi cancellate non fossero più leggibili dopo l’operazione, abbiamo anche il monito finale che prescrive di «non rovinare l’aspetto esteriore del libro e il suo contenuto»: bisognava distruggere anche la memoria di quello che il regime aveva eliminato e non lasciar segni della distruzione.
Libri, articoli, foto, schede bibliografiche, tutto doveva essere cancellato ed eliminato in modo tale che l’eliminazione delle persone la cui esistenza veniva attestata da quei documenti andasse ben al di la della semplice eliminazione fisica; bisognava convincere che non ci fossero mai stati oppositori, che non fossero mai state prodotte opere d’opposizione; e, ancora di più, non ci si doveva limitare agli oppositori, ma si doveva convincere che non esistesse nessuna forma di pensiero, di azione e di esistenza al di fuori delle prescrizioni del partito; era il nuovo modo per eliminare l’opposizione: non si trattava solo di combatterla, ma di renderla impensabile.
Connaturata al sistema, l’operazione non era iniziata solo con Stalin e neppure con la guerra civile, ma immediatamente dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi, prima con la requisizione delle biblioteche private di più di 500 volumi, poi con il decreto sull’editoria statale, del 29 dicembre 1917, nel quale si era stabilito che la responsabilità della pubblicazione delle opere dei classici sarebbe spettata unicamente all’Accademia delle Scienze, riformata, si precisava subito, «in conformità al nuovo ordinamento statale e sociale della Russia»; un passo ulteriore per rafforzare il monopolio statale sulla pubblicazione dei classici era stato fatto nel 1919 quando il diritto esclusivo alla pubblicazione dei classici venne attribuito alla neonata casa editrice di Stato, il Gosizdat. Ma decidere cosa pubblicare degli autori contemporanei o del passato evidentemente non bastava: si cominciò a eliminare: quello che era stato stampato prima della rivoluzione e quello che era stato stampato dopo, che era pur passato dal vaglio della censura ma non andava più bene. Così, ad esempio, accadde a un’opera come il libro sulla costruzione del Belomorkanal, un libro pubblicato nel 1934, voluto dal regime per cantare il valore rieducativo del lavoro servile dei detenuti dei campi di concentramento (nei cantieri del canale morirono in pochi mesi diverse decine di migliaia di persone), scritto con contributi di scrittori famosi come Gor’kij e Zoshenko, diventato un vero oggetto di culto e poi ritirato dalla circolazione nel 1937, dopo la caduta in disgrazia di Jagoda, il capo della polizia politica che aveva diretto tutta l’operazione. E lo stesso sarebbe successo all’enorme quantità di letteratura antinazista che dal 1933 al 1939 era stata prodotta in tutta l’Unione Sovietica e poi, dopo gli scellerati patti tra Molotov e von Ribbentrop dell’agosto 1939, era diventata improvvisamente e sorprendentemente improponibile (tra le curiosità andrebbe ricordato che allora si ritirò dalla circolazione persino un libro che parlava della guerra di Abissinia: evidentemente per non offendere un amico fraterno di Hitler).
Noi evidentemente citiamo a caso alcuni degli esempi più clamorosi, ma nel Paese che aveva inventato la pianificazione anche decidere cosa eliminare non poteva essere lasciato al caso; a questo scopo venivano regolarmente compilate delle liste nere, nel 1929 ce n’è una con duemila titoli, nel 1931 sono tremila, nel 1938 si arriva a cinquemila, di circa 1600 autori per circa dieci milioni di esemplari, nel 1948 abbiamo seimila titoli. Nel solo mese di luglio del 1935 e nella sola Leningrado abbiamo notizia di oltre 20.000 libri bruciati. Secondo dati ufficiali, nel 1938-1939 vennero distrutti 16.453 titoli per più di 24 milioni di esemplari mentre nel 1940 vennero distrutte tutte le opere (senza esclusione alcuna) di 362 autori e ritirati dalla circolazione circa 3.700 titoli. Quando si parla delle dimensioni, della quantità e della qualità dell’operazione non si deve pensare soltanto al numero e al valore degli autori eliminati, ma anche ai criteri con i quali si sceglieva chi e cosa eliminare: ad attirare l’attenzione dei censori poteva essere una scienza sospetta, una tematica, la nazionalità di un autore (in certi momenti vennero eliminate tutte le letterature dei popoli dell’Unione Sovietica soggetti a repressione), addirittura poteva bastare la presenza nell’opera del nome di un nemico del popolo, ma poteva bastare anche che qualcuno scoprisse in una poesia un acrostico con uno slogan vagamente antisovietico (tra l’altro l’acrostico non era neppure fatto con le prime lettere di ogni verso, ma con le seconde; e questo dà anche l’idea di quante persone e di quanto tempo venisse gettato per questa attività di ricerca). Si arrivava evidentemente a degli eccessi stigmatizzati dalle stesse autorità, perché in qualche caso ad esempio vennero eliminati dei libri il cui autore era semplicemente omonimo di un autore caduto in disgrazia e la smania di purezza portò a far temere che per certe discipline si rischiasse di restare senza manuali: non ci si fermava neppure davanti ai cataloghi, ai repertori, alle bibliografie, ai dizionari e alle enciclopedie. Negli anni Trenta ad attirare l’attenzione della censura fu un dizionario accademico al quale venne rimproverato di comprendere termini come «idealismo» o «idealistico» e di citare come esempi Dostoevskij e Solov’ëv; gli autori del dizionario avevano inoltre avuto l’impudenza, nella voce «ideale», di utilizzare come spiegazione una citazione da Tolstoj che così recitava: «l’ideale della perfezione, dato da Cristo, non è un sogno o l’oggetto di prediche retoriche, ma la guida più necessaria e a tutti accessibile della vita morale degli uomini». Neppure i grandi classici ottocenteschi erano dunque al sicuro; non lo era Dostoevskij, i cui Demoni non poterono mai essere pubblicati in edizione separata, perché considerati un esempio di «farneticante misticismo» e un’opera «calunniosa e diffamatoria» nei confronti del movimento rivoluzionario russo; non lo era Gogol’, le cui Meditazioni sulla Divina Liturgia non vennero mai stampate neppure nelle edizioni accademiche; non lo era Cechov le cui lettere nell’edizione accademica del 19481952 subirono non meno di 500 tagli, tra i quali spiccano tutti i riferimenti alla figura del regista Mejerchol’d, evidentemente non secondario per l’attività di un autore come Cechov, ma non più evocabile dopo che era stato fucilato nel 1940. Sono note le vicende dei grandi autori del cosiddetto dissenso: i vari Solzenicyn, Grossman, Šalamov e tanti altri i cui libri non poterono mai essere pubblicati in Unione Sovietica e potevano penetrarvi solo clandestinamente; è nota, ancora prima, la vicenda di Pasternak e del suo Dottor Zivago , che venne pubblicato in Italia; e così si sa di Bulgakov e di Brodskij e di tanti altri grandi autori, ma alla luce di quanto abbiamo visto, questi nomi pur così significativi rischiano di non dare ancora un’idea delle dimensioni reali di questo fenomeno, della sua estensione e intensità: non si trattò mai soltanto di eliminare dei libri e degli autori che per qualche motivo risultavano inaccettabili per il potere, si voleva piuttosto eliminare un mondo, il libro in quanto tale, in quanto testimonianza scritta di un avvenimento che, reale o frutto della fantasia artistica, aveva quelle determinate caratteristiche uniche, irripetibili e irriducibili, che lo rendevano un fatto propriamente umano.
Tre scrittori e la loro geniale fantasia per arrivare a immaginare quello che è stato non solo il contenuto di una finzione letteraria, ma una storia reale; in effetti c’era già tutto in una banale circolare dell’Nkvd, nella quale si prescriveva di eliminare i libri sgraditi al regime «facendoli a pezzi o bruciandoli» e poi ovviamente eliminando anche le relative schede bibliografiche.
Va precisato che in Urss in molti casi non tutte le opere venivano distrutte e per lo meno alcune copie venivano conservate negli appositi settori speciali chiusi delle grandi biblioteche; resta comunque il fatto che l’opera di distruzione del patrimonio librario russo, portata avanti dal regime sovietico dalla sua nascita alla fine, è stata così eccezionale per quantità e qualità che si è arrivati a coniare un nuovo termine per descrivere il fenomeno: bibliocidio . Il neologismo ne richiama evidentemente un altro, più famoso, quello di genocidio: non è un caso, anche il bibliocidio era caratterizzato da una radicalità assoluta che sembrava non volersi lasciar sfuggire nulla, neppure le tracce dell’esistenza di un libro, di un articolo, di una foto. È diventata proverbiale la storia, anche questa reale, della voce «Berija» nella Grande Enciclopedia Sovietica: quello che era stato il capo della polizia politica sovietica dal 1938 a poco dopo la morte di Stalin era appena stato eliminato fisicamente che subito si cominciò a cercare di eliminarne anche la memoria e così, ai possessori dell’Enciclopedia venne inviato un quartino con un nuovo testo che alla vecchia voce sostituiva una serie di ritocchi alle voci contigue e soprattutto una serie di foto del mar di Bering; il quartino era accompagnato da un fogliettino con queste ineffabili istruzioni per l’uso: «All’abbonato alla Grande Enciclopedia Sovietica. L’editrice scientifica statale 'Grande Enciclopedia Sovietica' raccomanda di togliere dal V tomo della GES le pagine 21, 22, 23 e 24, e anche il ritratto, incollato tra le pagine 22 e 23, al cui posto Vi vengono inviate le pagine con il nuovo testo. Con delle forbici o una lametta da barba si devono tagliare le pagine indicate, conservando vicino alla rilegatura un margine al quale incollare le nuove pagine». Il carattere quasi maniacale di queste istruzioni non deve stupire: è una caratteristica costante e ripetuta sino all’ossessione e al ridicolo, al punto che in un documento degli anni Trenta, insieme con le istruzioni ancor più particolareggiate su come eliminare pagine, articoli, frasi e parole, e accanto all’esortazione a far sì che le parole e le frasi cancellate non fossero più leggibili dopo l’operazione, abbiamo anche il monito finale che prescrive di «non rovinare l’aspetto esteriore del libro e il suo contenuto»: bisognava distruggere anche la memoria di quello che il regime aveva eliminato e non lasciar segni della distruzione.
Libri, articoli, foto, schede bibliografiche, tutto doveva essere cancellato ed eliminato in modo tale che l’eliminazione delle persone la cui esistenza veniva attestata da quei documenti andasse ben al di la della semplice eliminazione fisica; bisognava convincere che non ci fossero mai stati oppositori, che non fossero mai state prodotte opere d’opposizione; e, ancora di più, non ci si doveva limitare agli oppositori, ma si doveva convincere che non esistesse nessuna forma di pensiero, di azione e di esistenza al di fuori delle prescrizioni del partito; era il nuovo modo per eliminare l’opposizione: non si trattava solo di combatterla, ma di renderla impensabile.
Connaturata al sistema, l’operazione non era iniziata solo con Stalin e neppure con la guerra civile, ma immediatamente dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi, prima con la requisizione delle biblioteche private di più di 500 volumi, poi con il decreto sull’editoria statale, del 29 dicembre 1917, nel quale si era stabilito che la responsabilità della pubblicazione delle opere dei classici sarebbe spettata unicamente all’Accademia delle Scienze, riformata, si precisava subito, «in conformità al nuovo ordinamento statale e sociale della Russia»; un passo ulteriore per rafforzare il monopolio statale sulla pubblicazione dei classici era stato fatto nel 1919 quando il diritto esclusivo alla pubblicazione dei classici venne attribuito alla neonata casa editrice di Stato, il Gosizdat. Ma decidere cosa pubblicare degli autori contemporanei o del passato evidentemente non bastava: si cominciò a eliminare: quello che era stato stampato prima della rivoluzione e quello che era stato stampato dopo, che era pur passato dal vaglio della censura ma non andava più bene. Così, ad esempio, accadde a un’opera come il libro sulla costruzione del Belomorkanal, un libro pubblicato nel 1934, voluto dal regime per cantare il valore rieducativo del lavoro servile dei detenuti dei campi di concentramento (nei cantieri del canale morirono in pochi mesi diverse decine di migliaia di persone), scritto con contributi di scrittori famosi come Gor’kij e Zoshenko, diventato un vero oggetto di culto e poi ritirato dalla circolazione nel 1937, dopo la caduta in disgrazia di Jagoda, il capo della polizia politica che aveva diretto tutta l’operazione. E lo stesso sarebbe successo all’enorme quantità di letteratura antinazista che dal 1933 al 1939 era stata prodotta in tutta l’Unione Sovietica e poi, dopo gli scellerati patti tra Molotov e von Ribbentrop dell’agosto 1939, era diventata improvvisamente e sorprendentemente improponibile (tra le curiosità andrebbe ricordato che allora si ritirò dalla circolazione persino un libro che parlava della guerra di Abissinia: evidentemente per non offendere un amico fraterno di Hitler).
Noi evidentemente citiamo a caso alcuni degli esempi più clamorosi, ma nel Paese che aveva inventato la pianificazione anche decidere cosa eliminare non poteva essere lasciato al caso; a questo scopo venivano regolarmente compilate delle liste nere, nel 1929 ce n’è una con duemila titoli, nel 1931 sono tremila, nel 1938 si arriva a cinquemila, di circa 1600 autori per circa dieci milioni di esemplari, nel 1948 abbiamo seimila titoli. Nel solo mese di luglio del 1935 e nella sola Leningrado abbiamo notizia di oltre 20.000 libri bruciati. Secondo dati ufficiali, nel 1938-1939 vennero distrutti 16.453 titoli per più di 24 milioni di esemplari mentre nel 1940 vennero distrutte tutte le opere (senza esclusione alcuna) di 362 autori e ritirati dalla circolazione circa 3.700 titoli. Quando si parla delle dimensioni, della quantità e della qualità dell’operazione non si deve pensare soltanto al numero e al valore degli autori eliminati, ma anche ai criteri con i quali si sceglieva chi e cosa eliminare: ad attirare l’attenzione dei censori poteva essere una scienza sospetta, una tematica, la nazionalità di un autore (in certi momenti vennero eliminate tutte le letterature dei popoli dell’Unione Sovietica soggetti a repressione), addirittura poteva bastare la presenza nell’opera del nome di un nemico del popolo, ma poteva bastare anche che qualcuno scoprisse in una poesia un acrostico con uno slogan vagamente antisovietico (tra l’altro l’acrostico non era neppure fatto con le prime lettere di ogni verso, ma con le seconde; e questo dà anche l’idea di quante persone e di quanto tempo venisse gettato per questa attività di ricerca). Si arrivava evidentemente a degli eccessi stigmatizzati dalle stesse autorità, perché in qualche caso ad esempio vennero eliminati dei libri il cui autore era semplicemente omonimo di un autore caduto in disgrazia e la smania di purezza portò a far temere che per certe discipline si rischiasse di restare senza manuali: non ci si fermava neppure davanti ai cataloghi, ai repertori, alle bibliografie, ai dizionari e alle enciclopedie. Negli anni Trenta ad attirare l’attenzione della censura fu un dizionario accademico al quale venne rimproverato di comprendere termini come «idealismo» o «idealistico» e di citare come esempi Dostoevskij e Solov’ëv; gli autori del dizionario avevano inoltre avuto l’impudenza, nella voce «ideale», di utilizzare come spiegazione una citazione da Tolstoj che così recitava: «l’ideale della perfezione, dato da Cristo, non è un sogno o l’oggetto di prediche retoriche, ma la guida più necessaria e a tutti accessibile della vita morale degli uomini». Neppure i grandi classici ottocenteschi erano dunque al sicuro; non lo era Dostoevskij, i cui Demoni non poterono mai essere pubblicati in edizione separata, perché considerati un esempio di «farneticante misticismo» e un’opera «calunniosa e diffamatoria» nei confronti del movimento rivoluzionario russo; non lo era Gogol’, le cui Meditazioni sulla Divina Liturgia non vennero mai stampate neppure nelle edizioni accademiche; non lo era Cechov le cui lettere nell’edizione accademica del 19481952 subirono non meno di 500 tagli, tra i quali spiccano tutti i riferimenti alla figura del regista Mejerchol’d, evidentemente non secondario per l’attività di un autore come Cechov, ma non più evocabile dopo che era stato fucilato nel 1940. Sono note le vicende dei grandi autori del cosiddetto dissenso: i vari Solzenicyn, Grossman, Šalamov e tanti altri i cui libri non poterono mai essere pubblicati in Unione Sovietica e potevano penetrarvi solo clandestinamente; è nota, ancora prima, la vicenda di Pasternak e del suo Dottor Zivago , che venne pubblicato in Italia; e così si sa di Bulgakov e di Brodskij e di tanti altri grandi autori, ma alla luce di quanto abbiamo visto, questi nomi pur così significativi rischiano di non dare ancora un’idea delle dimensioni reali di questo fenomeno, della sua estensione e intensità: non si trattò mai soltanto di eliminare dei libri e degli autori che per qualche motivo risultavano inaccettabili per il potere, si voleva piuttosto eliminare un mondo, il libro in quanto tale, in quanto testimonianza scritta di un avvenimento che, reale o frutto della fantasia artistica, aveva quelle determinate caratteristiche uniche, irripetibili e irriducibili, che lo rendevano un fatto propriamente umano.
"Avvenire" del 9 agosto 2009
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