di Maurizio Cucchi
Alberto Casadei, italianista e poeta quarantaseienne, ha pubblicato un piccolo libro di notevole impegno e interesse su un tema sempre attuale e complesso: «Poesia e ispirazione» (Sossella, pp. 90, euro 10). Spesso, in effetti, anche se da tempo messa in discussione, la parola «ispirazione« è usata per la poesia e altre forme d’arte in modo superficiale o generico.
Casadei cerca di precisare i termini della questione, senza arrivare a nessuna risposta conclusiva, ma cercando di indagare nei vari tempi di una lunga storia il senso che è venuta assumendo l’idea stessa di poesia. Tutto questo tenendo presenti gli sviluppi recenti nell’ambito della linguistica cognitiva, in grado di fornire, per quanto possibile, nuovi modi di investigazione sulla natura stessa della poesia. Il suo excursus prede le mosse da Platone e Aristotele, ma lascia in sostanza sullo sfondo l’esperienza della poesia classica greca e latina.
Coinvolge il «realismo» dantesco e il «lirismo» petrarchesco, trova una confluenza tra i due elementi nell’opera di Shakespeare, arriva alla «svolta romantica» che apre a una nuova concezione della lirica stessa, e «ne rimette in gioco le componenti pre-razionali».
Inutile qui riproporre l’intero cammino dei maggiori esiti successivi, da Baudelaire, Rimbaud e Mallarmé fino ai grandissimi di primo Novecento come Rilke o Eliot, passando poi per le nuove vie del surrealismo con le scoperte della psicanalisi e dell’inconscio. Casadei vuole comunque arrivare all’oggi, e sa bene che il presente non è molto favorevole all’ascolto della poesia, sommersa da montagne di messaggi kitsch e trash. Parla della fortuna e del ruolo dei cantautori, un equivoco – dico io – e un’ideologia del nostro tempo, quando il mercato offre un modesto succedaneo culturalmente consolatorio a chi non ha altro che la tv. La poesia è altrove e il tema dell’ispirazione resta aperto, oscillando tra posizioni orfiche o di un certo misticismo poetico e l’opposto di un’idea più vicina a quella originaria del «fare» e dunque del «poièin». Resta il fatto che varie e sempre parzialmente insondabili sono le ragioni ispiratrici della poesia, e che la poesia stessa ha comunque un carattere essenziale: quello della complessità dei suoi movimenti, che ci riportano alla complessità di rapporti tra linguaggio e attività psichica.
Oltre che alla complessità, s’intende, del reale e del mondo. Per tentare una semplificazione non scorretta, possiamo ben ricondurre l’esercizio della poesia a quello originario di un fare, di una creazione artistica fondata sull’elaborazione dei materiali linguistici a nostra disposizione e sulle spalle di una tradizione ormai, oggi, talmente ricca e varia da poterci consentire un vastissimo campo di possibili aperture e aggiornamenti. Certo, l’ispirazione non ci proviene dai cieli più elevati, ma verosimilmente da un intrico di esperienze di vita e parola, risvolti psichici, sogni e mediazioni, un intrico profondamente umano. Proprio per questo è bene tornare al più concreto concetto di «bottega», dove si deposita la tradizione e con il paziente lavoro la si fa crescere e rinnovare, dove si realizza l’idea di un linguaggio espressivo che può arrivare agli esiti più elevati e nobili di un’arte solo partendo dall’umiltà artigianale di una piena consapevolezza dei limiti e dei mezzi.
Casadei cerca di precisare i termini della questione, senza arrivare a nessuna risposta conclusiva, ma cercando di indagare nei vari tempi di una lunga storia il senso che è venuta assumendo l’idea stessa di poesia. Tutto questo tenendo presenti gli sviluppi recenti nell’ambito della linguistica cognitiva, in grado di fornire, per quanto possibile, nuovi modi di investigazione sulla natura stessa della poesia. Il suo excursus prede le mosse da Platone e Aristotele, ma lascia in sostanza sullo sfondo l’esperienza della poesia classica greca e latina.
Coinvolge il «realismo» dantesco e il «lirismo» petrarchesco, trova una confluenza tra i due elementi nell’opera di Shakespeare, arriva alla «svolta romantica» che apre a una nuova concezione della lirica stessa, e «ne rimette in gioco le componenti pre-razionali».
Inutile qui riproporre l’intero cammino dei maggiori esiti successivi, da Baudelaire, Rimbaud e Mallarmé fino ai grandissimi di primo Novecento come Rilke o Eliot, passando poi per le nuove vie del surrealismo con le scoperte della psicanalisi e dell’inconscio. Casadei vuole comunque arrivare all’oggi, e sa bene che il presente non è molto favorevole all’ascolto della poesia, sommersa da montagne di messaggi kitsch e trash. Parla della fortuna e del ruolo dei cantautori, un equivoco – dico io – e un’ideologia del nostro tempo, quando il mercato offre un modesto succedaneo culturalmente consolatorio a chi non ha altro che la tv. La poesia è altrove e il tema dell’ispirazione resta aperto, oscillando tra posizioni orfiche o di un certo misticismo poetico e l’opposto di un’idea più vicina a quella originaria del «fare» e dunque del «poièin». Resta il fatto che varie e sempre parzialmente insondabili sono le ragioni ispiratrici della poesia, e che la poesia stessa ha comunque un carattere essenziale: quello della complessità dei suoi movimenti, che ci riportano alla complessità di rapporti tra linguaggio e attività psichica.
Oltre che alla complessità, s’intende, del reale e del mondo. Per tentare una semplificazione non scorretta, possiamo ben ricondurre l’esercizio della poesia a quello originario di un fare, di una creazione artistica fondata sull’elaborazione dei materiali linguistici a nostra disposizione e sulle spalle di una tradizione ormai, oggi, talmente ricca e varia da poterci consentire un vastissimo campo di possibili aperture e aggiornamenti. Certo, l’ispirazione non ci proviene dai cieli più elevati, ma verosimilmente da un intrico di esperienze di vita e parola, risvolti psichici, sogni e mediazioni, un intrico profondamente umano. Proprio per questo è bene tornare al più concreto concetto di «bottega», dove si deposita la tradizione e con il paziente lavoro la si fa crescere e rinnovare, dove si realizza l’idea di un linguaggio espressivo che può arrivare agli esiti più elevati e nobili di un’arte solo partendo dall’umiltà artigianale di una piena consapevolezza dei limiti e dei mezzi.
«Avvenire» del 29 agosto 2009
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