L’autore e critico francese s’interroga e «riscopre» le antinomie che la parola poetica sperimenta con la dimensione religiosa e porta come esempio l’opera di Dante e Milton
di Yves Bonnefoy
Uno dei grandi soggetti di dibattito della nostra epoca è il rapporto tra poesia e religione, o almeno dovrebbe esserlo: perché sarebbe la prova che a fronte di un pensiero religioso sempre attivo la riflessione sulla poesia resta viva e cosciente del suo diritto a parlare altrettanto forte d’un’altra, e questo non può che andare a beneficio di tutta la società.
È da sottolineare tuttavia che il dibattito tra il poetico e il religioso non ha luogo che ben raramente nella storia dell’Europa a partire dall’avvento del cristianesimo: perché esso ha la tendenza a inscrivere la poesia fra le sue diverse forme d’espressione, detto altrimenti ha considerato il poema come un semplice mezzo al servizio della propria causa o in funzione dell’approfondimento delle proprie idee. Grandi esempi lo attestano: Dante, Milton, poeti che non esitavano a fare appello a una fede. Rari erano invece quei poeti che osavano proclamare la propria autonomia. Dopodiché, la poesia moderna non ha abbastanza riflettuto sulla propria natura essenziale. Io credo tuttavia importante, oggi, tentare questa riflessione, e dunque considerare di primo acchito il poetico e il religioso come due ricerche distinte. È importante capire che la poesia, di fronte al religioso, ha una sua verità da far valere. Nel parlare ordinario questi sono concetti che decidono dei nostri pensieri: ora, i concetti non conoscono le cose (o le persone) se non appoggiandosi su aspetti di ciascuna d’esse, e non sulla totalità di ciò che esse sono, che tuttavia in sé ha dell’infinito. I concetti possono ricostruire una idea dell’albero, ma non dire questo albero che è qui di fronte a noi, con gli infiniti elementi della sua presenza tutti percepibili e tutti percepiti nello stesso istante. La realtà particolare trascende il pensiero concettuale. Ciò che impedisce a quest’ultimo di fare l’esperienza diretta delle grandi componenti dell’esistenza particolare: il tempo, il caso, il luogo o, per dir meglio, la nostra finitezza, la morte. Il concetto ci tiene come in esilio da noi-stessi, salvo che, a ogni immagine del mondo che ci propone, noi sappiamo ricordargli che non rappresenta il vero reale. Ed è la poesia che si fa portatrice di questo richiamo. Ciò che è specifico della poesia, in effetti, è sentire che il nostro stare di fronte a noi-stessi trascende le rappresentazioni che il pensiero concettuale ne dà, ovvero è il tentativo di dare voce a questa profondità impiegando le parole in un altro modo. Da questo punto di vista la poesia può sembrare in accordo col pensiero religioso, poiché anch’esso percepisce la trascendenza attraverso la nostra esperienza della realtà.
Per il cristiano la persona umana è più che la propria realtà biologica o il proprio comportamento sociale, di cui i concetti possono dare conto.
Essa possiede una trascendenza, che si radica nella trascendenza divina, Dio essendo sentito come aldilà di tutte le rappresentazioni o formulazioni. E il sentimento poetico e il lavoro della poesia potrebbero dunque sembrare che trovino naturalmente il loro posto in seno a questo pensiero. La poesia non farebbe altro che provare, nel rapporto che abbiamo con le cose, quella trascendenza che il religioso sarebbe in grado di collegare a una coscienza del tutto.
Ma è nel seno stesso di questa prossimità che si rivela una differenza, che si può stimare di natura fondamentale. Perché la religione accosta questa esperienza del divino (che nella sua radicalità possiamo qualificare come 'mistico') attraverso rappresentazioni che la poesia, in quanto trasgressione dal concettuale, può considerare ancora concettuale, e dunque un modo di perdere il contatto con quella presenza che essa insegue e che le pare essenziale, per le ragioni che ho detto. Essa, dunque, rimprovera alla religione di misconoscere la profondità dell’esperienza mistica, detto altrimenti di non portarsi aldilà del mito. E qui si rende necessario il dibattito. In effetti la poesia è più prossima alla mistica che la religione (che ha sempre avuto un rapporto difficile con l’intuizione mistica). La poesia non conosce il divino che come una voragine che si apre nel reticolo delle rappresentazioni concettuali – ovvero si rifiuta a tutte le credenze che riposano soltanto su concetti – ma, simultaneamente, rende la relazione della persona con sestessa in tutta la sua pienezza, liberandola dalle rappresentazioni che ne parlano solo in modo astratto e riduttivo. La poesia contrasta il mito, che essa avverte come concettualizzato e, di fatto, come il suo nemico, sebbene intimo. Essa in questo è «atea», nel senso che le Chiese danno a questa parola. Ed è su questo che oggi si dovrebbe riflettere.
È da sottolineare tuttavia che il dibattito tra il poetico e il religioso non ha luogo che ben raramente nella storia dell’Europa a partire dall’avvento del cristianesimo: perché esso ha la tendenza a inscrivere la poesia fra le sue diverse forme d’espressione, detto altrimenti ha considerato il poema come un semplice mezzo al servizio della propria causa o in funzione dell’approfondimento delle proprie idee. Grandi esempi lo attestano: Dante, Milton, poeti che non esitavano a fare appello a una fede. Rari erano invece quei poeti che osavano proclamare la propria autonomia. Dopodiché, la poesia moderna non ha abbastanza riflettuto sulla propria natura essenziale. Io credo tuttavia importante, oggi, tentare questa riflessione, e dunque considerare di primo acchito il poetico e il religioso come due ricerche distinte. È importante capire che la poesia, di fronte al religioso, ha una sua verità da far valere. Nel parlare ordinario questi sono concetti che decidono dei nostri pensieri: ora, i concetti non conoscono le cose (o le persone) se non appoggiandosi su aspetti di ciascuna d’esse, e non sulla totalità di ciò che esse sono, che tuttavia in sé ha dell’infinito. I concetti possono ricostruire una idea dell’albero, ma non dire questo albero che è qui di fronte a noi, con gli infiniti elementi della sua presenza tutti percepibili e tutti percepiti nello stesso istante. La realtà particolare trascende il pensiero concettuale. Ciò che impedisce a quest’ultimo di fare l’esperienza diretta delle grandi componenti dell’esistenza particolare: il tempo, il caso, il luogo o, per dir meglio, la nostra finitezza, la morte. Il concetto ci tiene come in esilio da noi-stessi, salvo che, a ogni immagine del mondo che ci propone, noi sappiamo ricordargli che non rappresenta il vero reale. Ed è la poesia che si fa portatrice di questo richiamo. Ciò che è specifico della poesia, in effetti, è sentire che il nostro stare di fronte a noi-stessi trascende le rappresentazioni che il pensiero concettuale ne dà, ovvero è il tentativo di dare voce a questa profondità impiegando le parole in un altro modo. Da questo punto di vista la poesia può sembrare in accordo col pensiero religioso, poiché anch’esso percepisce la trascendenza attraverso la nostra esperienza della realtà.
Per il cristiano la persona umana è più che la propria realtà biologica o il proprio comportamento sociale, di cui i concetti possono dare conto.
Essa possiede una trascendenza, che si radica nella trascendenza divina, Dio essendo sentito come aldilà di tutte le rappresentazioni o formulazioni. E il sentimento poetico e il lavoro della poesia potrebbero dunque sembrare che trovino naturalmente il loro posto in seno a questo pensiero. La poesia non farebbe altro che provare, nel rapporto che abbiamo con le cose, quella trascendenza che il religioso sarebbe in grado di collegare a una coscienza del tutto.
Ma è nel seno stesso di questa prossimità che si rivela una differenza, che si può stimare di natura fondamentale. Perché la religione accosta questa esperienza del divino (che nella sua radicalità possiamo qualificare come 'mistico') attraverso rappresentazioni che la poesia, in quanto trasgressione dal concettuale, può considerare ancora concettuale, e dunque un modo di perdere il contatto con quella presenza che essa insegue e che le pare essenziale, per le ragioni che ho detto. Essa, dunque, rimprovera alla religione di misconoscere la profondità dell’esperienza mistica, detto altrimenti di non portarsi aldilà del mito. E qui si rende necessario il dibattito. In effetti la poesia è più prossima alla mistica che la religione (che ha sempre avuto un rapporto difficile con l’intuizione mistica). La poesia non conosce il divino che come una voragine che si apre nel reticolo delle rappresentazioni concettuali – ovvero si rifiuta a tutte le credenze che riposano soltanto su concetti – ma, simultaneamente, rende la relazione della persona con sestessa in tutta la sua pienezza, liberandola dalle rappresentazioni che ne parlano solo in modo astratto e riduttivo. La poesia contrasta il mito, che essa avverte come concettualizzato e, di fatto, come il suo nemico, sebbene intimo. Essa in questo è «atea», nel senso che le Chiese danno a questa parola. Ed è su questo che oggi si dovrebbe riflettere.
«Avvenire» del 18 novembre 2007
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