Morale e politica in una raccolta di saggi del filosofo Eric Weil
di Giancarlo Lacchin
Che cos’è la libertà? Ma soprattutto «libertà da chi? da che cosa? in vista di che cosa? e perché libertà?, è forse la libertà di fare ciò che si vuole in ogni momento, o la libertà di realizzare ciò che si sia deciso di realizzare all’interno delle condizioni imposte dal mondo?».
Sono le domande che da sempre l’uomo si pone quando si confronta con la propria vita, i propri sogni, i propri principi e con le scelte fondamentali del proprio agire; ma soprattutto sono le domande che guidano (o che dovrebbero guidare) l’esistenza dell’uomo quando egli viene a confrontarsi con l’altro e con le condizioni della propria convivenza sociale e politica. Si dà moralità, infatti, soltanto dove l’individuo si confronta con l’altro da sé, si dà politica soltanto dove l’uomo dà ragione, a sé e agli altri, delle proprie azioni morali finalizzate al vivere comune.
Quello che è un annoso e complesso problema filosofico e culturale, ancora assolutamente aperto e certo non risolvibile, diviene nell’opera di Eric Weil (1904-1977), pensatore franco-tedesco vicino a Ernst Cassirer, studioso di aristotelismo ed erede della più nobile tradizione filosofica del Novecento europeo, oggetto di una grande visione prospettica, che colloca il problema del rapporto fra individuo e Stato all’interno del complesso legame fra libertà e violenza. La grande attualità delle riflessioni di Weil, del quale Andrea Vestrucci ha curato una significativa raccolta di saggi (Violenza e libertà. Scritti di morale e politica, Mimesis, pagg. 192, euro 15, postfazione di Davide Bigalli) proprio incentrati sul legame fra libertà e violenza, quali cardini della struttura dello Stato e del movimento storico di determinazione dell’individuo all’interno dell’ordinamento politico, si gioca tutta nella possibilità, si potrebbe dire quasi «rigenerativa» di mettere in relazione dialetticamente fra loro le due prospettive.
Libertà nelle leggi, libertà delle leggi, violenza dello Stato, violenza contro lo Stato, legittimità della violenza garante di libertà, libertà come esclusione della violenza: è tutta una ricca e controversa costellazione di significati ciò che ci si presenta di fronte in forma rinnovata e provocatoria. E allora si scopre che violenza e libertà, all’interno dello Stato in relazione al suo rapporto con l’individuo, sembrano tanto escludersi reciprocamente quanto trovare in esse una reciproca giustificazione: la violenza appare allo stesso tempo come negazione della libertà, ma al contempo come condizione della stessa. È una visione disincantata e realista quella che Weil ci propone, ancora oggi estremamente attuale per la nostra contemporaneità.
Il filosofo che guarda al mondo con le sue contraddizioni e con i suoi equivoci, è quindi colui che si confronta con il rischio del proprio mestiere. È lo stesso Weil a ricordarci che «se il vero e il bene si imponessero meccanicamente, non avrebbe più senso parlare di verità e di morale, non ci sarebbero più decisioni né storia, si sarebbe realizzato l’ideale della Repubblica platonica. Non è evidente che tale ideale sia insensato; in compenso, non è l’ideale del mondo moderno, della sua società e del suo Stato».
Sono le domande che da sempre l’uomo si pone quando si confronta con la propria vita, i propri sogni, i propri principi e con le scelte fondamentali del proprio agire; ma soprattutto sono le domande che guidano (o che dovrebbero guidare) l’esistenza dell’uomo quando egli viene a confrontarsi con l’altro e con le condizioni della propria convivenza sociale e politica. Si dà moralità, infatti, soltanto dove l’individuo si confronta con l’altro da sé, si dà politica soltanto dove l’uomo dà ragione, a sé e agli altri, delle proprie azioni morali finalizzate al vivere comune.
Quello che è un annoso e complesso problema filosofico e culturale, ancora assolutamente aperto e certo non risolvibile, diviene nell’opera di Eric Weil (1904-1977), pensatore franco-tedesco vicino a Ernst Cassirer, studioso di aristotelismo ed erede della più nobile tradizione filosofica del Novecento europeo, oggetto di una grande visione prospettica, che colloca il problema del rapporto fra individuo e Stato all’interno del complesso legame fra libertà e violenza. La grande attualità delle riflessioni di Weil, del quale Andrea Vestrucci ha curato una significativa raccolta di saggi (Violenza e libertà. Scritti di morale e politica, Mimesis, pagg. 192, euro 15, postfazione di Davide Bigalli) proprio incentrati sul legame fra libertà e violenza, quali cardini della struttura dello Stato e del movimento storico di determinazione dell’individuo all’interno dell’ordinamento politico, si gioca tutta nella possibilità, si potrebbe dire quasi «rigenerativa» di mettere in relazione dialetticamente fra loro le due prospettive.
Libertà nelle leggi, libertà delle leggi, violenza dello Stato, violenza contro lo Stato, legittimità della violenza garante di libertà, libertà come esclusione della violenza: è tutta una ricca e controversa costellazione di significati ciò che ci si presenta di fronte in forma rinnovata e provocatoria. E allora si scopre che violenza e libertà, all’interno dello Stato in relazione al suo rapporto con l’individuo, sembrano tanto escludersi reciprocamente quanto trovare in esse una reciproca giustificazione: la violenza appare allo stesso tempo come negazione della libertà, ma al contempo come condizione della stessa. È una visione disincantata e realista quella che Weil ci propone, ancora oggi estremamente attuale per la nostra contemporaneità.
Il filosofo che guarda al mondo con le sue contraddizioni e con i suoi equivoci, è quindi colui che si confronta con il rischio del proprio mestiere. È lo stesso Weil a ricordarci che «se il vero e il bene si imponessero meccanicamente, non avrebbe più senso parlare di verità e di morale, non ci sarebbero più decisioni né storia, si sarebbe realizzato l’ideale della Repubblica platonica. Non è evidente che tale ideale sia insensato; in compenso, non è l’ideale del mondo moderno, della sua società e del suo Stato».
«Il Giornale» del 28 novembre 2007
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