A Rovereto una mostra sulle creazioni delle avanguardie del Novecento
di Giorgio Ieranò
Di che colore sono le vocali? La risposta è facile: la A è nera, la E è bianca, la I è rossa, la U è verde, la O è blu. Ce lo ha svelato nel 1872 Arthur Rimbaud nella sua celebre poesia intitolata appunto Vocali (Voyelles).
La visione di Rimbaud aprì gli occhi anche a molti artisti. Ricordò che le parole sono fatte anche per essere viste, che il loro suono può essere raffigurato. Rimbaud in fondo ritrovava una dimensione originaria delle parole, andata svanita quando gli alfabeti trionfarono sui geroglifici, e la scrittura sembrò perdere gran parte della sua potenza visuale. Fu così che, anche per colpa di Rimbaud, il Novecento divenne il secolo della poesia visiva. La parola è stata incorporata nel dipinto, i confini fra scrittura e pittura si sono di nuovo assottigliati, come ai tempi dei pittogrammi degli antichi egizi. Hanno iniziato i futuristi, clamorosi e rombanti, al ritmo del Zang Tumb Tumb di Filippo Tommaso Marinetti, con le parole in libertà disegnate in vortici vertiginosi da Fortunato Depero o con i Cannoni in azione dipinti da Gino Severini, che sputavano lettere anziché proiettili. Gli altri poi hanno seguito a ruota: i dadaisti, i surrealisti, la pop art, il Gruppo 63. Tutte le avanguardie, piccole o grandi, ardite o velleitarie, si sono messe a fare arte con le parole, a inventare architetture di lettere.
Per rendersene conto basta, in questi giorni, andare al Museo di arte contemporanea (Mart) di Rovereto, dove una mostra bella e intelligente, aperta fino al 6 aprile 2008, è dedicata appunto a «La parola nell’arte», con un monumentale catalogo pubblicato da Skira che raccoglie centinaia di creazioni novecentesche.
Ma, visitando la mostra di Rovereto, ci si rende conto anche di come alla base di tutto ci sia un equivoco. Le creazioni dei futuristi appaiono ancora oggi straordinarie e originali; anche l’arte grafica dell’Unione Sovietica è stata formidabile nell’inventare un linguaggio nuovo che contamina parole e immagini; un pittore come René Magritte, quello che dipingeva una pipa e sotto ci scriveva «Questa non è una pipa», si muoveva con sofisticata ironia sul confine fra scrittura e pittura, argomento a cui dedicò anche un saggio teorico di un certo peso, Les mots et les images: «In un quadro - diceva - le parole sono della stessa sostanza delle immagini».
Ma quando si passa oltre e si supera il crinale del dopoguerra si ha come l’impressione che il giocattolo diventi sempre più usurato. Negli anni Sessanta i collage di titoli di giornale prodotti in serie da Nanni Balestrini incantavano il pubblico radical-chic. Ancora oggi le critichesse si sdilinquiscono per il primo artista che si applichi alla «poesia visuale». Ma è incredibile come, al visitatore non iniziato ai misteri dell’arte contemporanea, tutto sembri ora un poco stanco e sfiatato, il solito giochicchiare postmoderno. Davanti a opere come Bello, billo, bullo di Angelo Bucarelli (2006) la reazione tende fatalmente a essere quella di Fantozzi di fronte alla Corazzata Potemkin.
E allora, per respirare un poco di aria fresca, paradossalmente vien subito voglia di tornare indietro, lontano, ma molto lontano nel tempo. Quanti degli appassionati di arte contemporanea conosceranno il poeta Simmia di Rodi, che già tre secoli prima di Cristo praticava la «poesia visuale»? Simmia componeva poesie che, come nel ’900 i calligrammi di Guillaume Apollinaire, disegnavano immagini: una scure, un uovo, un paio di ali. Non era l’unico, né fu l’ultimo. Prendete i carmina figurata di Rabano Mauro (780-856 d. C.): sono arazzi di parole, labirinti poetici, architetture grafico-letterarie così vertiginose che al confronto il gigantesco quadro del trentenne Federico Pietrella, tutto composto da minuscoli timbri con data, in mostra a Rovereto, si riduce a una innocua goliardata.
A molti artisti contemporanei andrebbe consigliata la lettura di La parola dipinta, un vecchio saggio di padre Giovanni Pozzi che, sulla copertina della seconda edizione Adelphi del 1992, esibisce appunto alcuni «versi intessuti», a mo’ di arazzo, creati da Rabano Mauro. Ci troverebbero poesie in forma di culla o di castello, di sole o di liuto, di calice o di rosa, composte per tutto il medioevo e il Rinascimento. E ci troverebbero anche, per esempio, i «carmi circolari» dell’insigne matematico Juan Caramuel y Lobkowitz (Madrid, 1606-Milano, 1682). Tutte tappe del lungo percorso compiuto dalla parola nei territori dell’arte figurativa.
Come spesso accade nelle cose umane, l’inizio del fenomeno ha un carattere religioso. Lettere e parole, quando vengono disposte a formare immagini, sembrano assumere una forza magica particolare. I culti pagani e cristiani hanno spesso usato i nomi sacri come elementi decorativi. Il simbolo che a volte, erroneamente, si interpreta come rappresentazione della parola latina Pax (perché sembra una P attraversata da una X) è in realtà il simbolo di Cristo, formato dalla sovrapposizione delle due prime lettere greche del suo nome (rho e chi): un gioco grafico costruito, peraltro, a similitudine del simbolo egizio della Vita, l’Ankh. Nel 2003, poi, qualche ingenuo si è stupito di trovare versetti del Corano incisi sul lembo di una veste del David scolpito dal Verrocchio, allora appena restaurato. Ignorando che l’uso della scrittura araba come motivo ornamentale nell’arte dell’Occidente data almeno da Giotto. Mirabile e strana la vicenda delle parole nell’arte. Assai più grande e complessa di quanto possa pensare.
LA MOSTRA: «La parola nell’arte. Ricerche d’avanguardia nel ’900. Dal Futurismo ad oggi attraverso le Collezioni del Mart». Fino al 6 aprile 2008 al Museo di Arte moderna e contemporanea di Rovereto.
La visione di Rimbaud aprì gli occhi anche a molti artisti. Ricordò che le parole sono fatte anche per essere viste, che il loro suono può essere raffigurato. Rimbaud in fondo ritrovava una dimensione originaria delle parole, andata svanita quando gli alfabeti trionfarono sui geroglifici, e la scrittura sembrò perdere gran parte della sua potenza visuale. Fu così che, anche per colpa di Rimbaud, il Novecento divenne il secolo della poesia visiva. La parola è stata incorporata nel dipinto, i confini fra scrittura e pittura si sono di nuovo assottigliati, come ai tempi dei pittogrammi degli antichi egizi. Hanno iniziato i futuristi, clamorosi e rombanti, al ritmo del Zang Tumb Tumb di Filippo Tommaso Marinetti, con le parole in libertà disegnate in vortici vertiginosi da Fortunato Depero o con i Cannoni in azione dipinti da Gino Severini, che sputavano lettere anziché proiettili. Gli altri poi hanno seguito a ruota: i dadaisti, i surrealisti, la pop art, il Gruppo 63. Tutte le avanguardie, piccole o grandi, ardite o velleitarie, si sono messe a fare arte con le parole, a inventare architetture di lettere.
Per rendersene conto basta, in questi giorni, andare al Museo di arte contemporanea (Mart) di Rovereto, dove una mostra bella e intelligente, aperta fino al 6 aprile 2008, è dedicata appunto a «La parola nell’arte», con un monumentale catalogo pubblicato da Skira che raccoglie centinaia di creazioni novecentesche.
Ma, visitando la mostra di Rovereto, ci si rende conto anche di come alla base di tutto ci sia un equivoco. Le creazioni dei futuristi appaiono ancora oggi straordinarie e originali; anche l’arte grafica dell’Unione Sovietica è stata formidabile nell’inventare un linguaggio nuovo che contamina parole e immagini; un pittore come René Magritte, quello che dipingeva una pipa e sotto ci scriveva «Questa non è una pipa», si muoveva con sofisticata ironia sul confine fra scrittura e pittura, argomento a cui dedicò anche un saggio teorico di un certo peso, Les mots et les images: «In un quadro - diceva - le parole sono della stessa sostanza delle immagini».
Ma quando si passa oltre e si supera il crinale del dopoguerra si ha come l’impressione che il giocattolo diventi sempre più usurato. Negli anni Sessanta i collage di titoli di giornale prodotti in serie da Nanni Balestrini incantavano il pubblico radical-chic. Ancora oggi le critichesse si sdilinquiscono per il primo artista che si applichi alla «poesia visuale». Ma è incredibile come, al visitatore non iniziato ai misteri dell’arte contemporanea, tutto sembri ora un poco stanco e sfiatato, il solito giochicchiare postmoderno. Davanti a opere come Bello, billo, bullo di Angelo Bucarelli (2006) la reazione tende fatalmente a essere quella di Fantozzi di fronte alla Corazzata Potemkin.
E allora, per respirare un poco di aria fresca, paradossalmente vien subito voglia di tornare indietro, lontano, ma molto lontano nel tempo. Quanti degli appassionati di arte contemporanea conosceranno il poeta Simmia di Rodi, che già tre secoli prima di Cristo praticava la «poesia visuale»? Simmia componeva poesie che, come nel ’900 i calligrammi di Guillaume Apollinaire, disegnavano immagini: una scure, un uovo, un paio di ali. Non era l’unico, né fu l’ultimo. Prendete i carmina figurata di Rabano Mauro (780-856 d. C.): sono arazzi di parole, labirinti poetici, architetture grafico-letterarie così vertiginose che al confronto il gigantesco quadro del trentenne Federico Pietrella, tutto composto da minuscoli timbri con data, in mostra a Rovereto, si riduce a una innocua goliardata.
A molti artisti contemporanei andrebbe consigliata la lettura di La parola dipinta, un vecchio saggio di padre Giovanni Pozzi che, sulla copertina della seconda edizione Adelphi del 1992, esibisce appunto alcuni «versi intessuti», a mo’ di arazzo, creati da Rabano Mauro. Ci troverebbero poesie in forma di culla o di castello, di sole o di liuto, di calice o di rosa, composte per tutto il medioevo e il Rinascimento. E ci troverebbero anche, per esempio, i «carmi circolari» dell’insigne matematico Juan Caramuel y Lobkowitz (Madrid, 1606-Milano, 1682). Tutte tappe del lungo percorso compiuto dalla parola nei territori dell’arte figurativa.
Come spesso accade nelle cose umane, l’inizio del fenomeno ha un carattere religioso. Lettere e parole, quando vengono disposte a formare immagini, sembrano assumere una forza magica particolare. I culti pagani e cristiani hanno spesso usato i nomi sacri come elementi decorativi. Il simbolo che a volte, erroneamente, si interpreta come rappresentazione della parola latina Pax (perché sembra una P attraversata da una X) è in realtà il simbolo di Cristo, formato dalla sovrapposizione delle due prime lettere greche del suo nome (rho e chi): un gioco grafico costruito, peraltro, a similitudine del simbolo egizio della Vita, l’Ankh. Nel 2003, poi, qualche ingenuo si è stupito di trovare versetti del Corano incisi sul lembo di una veste del David scolpito dal Verrocchio, allora appena restaurato. Ignorando che l’uso della scrittura araba come motivo ornamentale nell’arte dell’Occidente data almeno da Giotto. Mirabile e strana la vicenda delle parole nell’arte. Assai più grande e complessa di quanto possa pensare.
LA MOSTRA: «La parola nell’arte. Ricerche d’avanguardia nel ’900. Dal Futurismo ad oggi attraverso le Collezioni del Mart». Fino al 6 aprile 2008 al Museo di Arte moderna e contemporanea di Rovereto.
«Il Giornale» del 29 novembre 2007
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