Lo scrittore vulcanico di «Hilarotragoedia» aveva steso l’ultima delle sue «interviste impossibili».
Questa volta con l’Altissimo. Ma – rivela la figlia Lietta – nessuno l’ha voluta pubblicare. E ora...
Questa volta con l’Altissimo. Ma – rivela la figlia Lietta – nessuno l’ha voluta pubblicare. E ora...
di Massimiliano Castellani
Da lassù, come un burattinaio senza fili, Giorgio Manganelli si diverte a fare scherzi alla sua unica figlia, Lietta, per la quale, a torto, pensava di essere stato «un padre intossicato di basse ambizioni letterarie». L’ultima burla architettata dal mondo dei più, dove ora si trova il papà dell’Hilarotragoedia è stata quella di indurla a pubblicare Intervista a Dio. Atto finale della vulcanica e labirintica poetica manganelliana, l’epilogo delle sue Interviste impossibili rimasto misteriosamente inedito e assolutamente ignorato anche alla più militante delle critiche “post63ine”.
Un testo riapparso fugacemente nel 2001 sul numero di giugno-luglio del “Caffè Illustrato” e poi resuscitato dalla lettura pubblica tenutasi in uno dei pochi luoghi culturali indipendenti di Milano, la Libreria Utopia. Ma l’arcano della mancata pubblicazione (alla quale si è sottratta anche Adelphi che ha i diritti delle opere di Manganelli) è stato finalmente sciolto da un “pescatore di perle” come Diego Dejaco e dalla sua piccola e raffinata casa editrice Sedizioni. Etichetta che già dal nome sarebbe piaciuta all’ars provocatoria dell’autore de Agli dei ulteriori che in questo brevissimo testo (intervista di appena 16 pagine) dopo essersi cimentato con illustri defunti come Fregoli, De Amicis e Nostradamus, fa interrogare «la Voce» V da un giovane giornalista G. Un dialogo serrato e provocatorio, come sempre, ma che va letto tra le sue innumerevoli sfumature. E non ci si fermi dunque alle ombre di un Dio incattivito al quale Manganelli fa dire all’umanità: «Non vi amo, ma odiarvi è troppo faticoso».
Mentre è molto più realistico e quasi autobografico il manganelliano signor G che viene ammonito nel suo atto di registrare l’intervistato impossibilmente speciale: «Come giornalista non deve avere né opinioni, né timori, né speranze...». Questo è il ritratto, quello di uno scrittore disabitato dalla speranza, ma non dalla fede. E l’Intervista a Dio ne è la dimostrazione. Manganelli la scrisse nel 1974 in un periodo in cui oltre alle Interviste radiofoniche si dedicava alla stesura di una piece teatrale mai rappresentata Hight Tea ovvero Il thè nell’empireo in cui alle coppie mitologiche di Amleto e Ofelia, Giocasta e Edipo, affianca quella cristiana di Gesù e la Maddalena. Una scelta quest’ultima non casuale, bensì elaborazione del pensiero di uno scrittore bollato in fretta come ateo e invece profondamente alla “ricerca”. «Quello di Manganelli - interviene sua figlia Lietta - va letto come un misticismo ateo o se preferite come atei- smo mistico. Tutta la vita ha cercato Dio senza trovarlo e lo ha fatto con la paura di chi aveva umanizzato quella figura, cogliendone così quei limiti che erano poi in fondo i suoi». Una ricerca costante che sulla pagina poi finiva per inabissarsi nel suo Ade interiore. «Non riesco a sapere se io stesso sono inferno e dunque l’inferno siano i miei accadimenti». Parole di un uomo che non aveva mai rifiutato Dio, ma anzi quella ricerca aveva avuto solide basi familiari, cresciuta in un ambiente di origine ebraica e poi sfociata in un “cristianesimo folle” che al piccolo Manganelli venne impartito dalla madre. «Sua madre Amelia era praticamente invasata - continua Lietta - . Lasciava biglietti per la casa rivolti a un Dio che implorava affinché non gli facesse bruciare l’arrosto. Mio padre l’assecondava indossando una tenda rossa e con quella girava per la casa vantandosi fiero e divertito di essere un vescovo. Eppure fu sempre riconoscente alla madre per l’educazione che gli aveva dato e nelle bellissime Lettere che gli scrisse parlava del Natale, della figura di Gesù Bambino con una tenerezza che è arrivata per via diretta anche a me e che a mia volta ho trasmesso ai miei figli ai quali recitavo le fiabe partendo dalle figure della Bibbia». Eppure è dall’“insano” approccio spirituale che poi Manganelli ha maturato lo «spavento» verso la religione cristiana che al contempo lo incuriosiva ponendolo nella più alta condizione intellettuale del dubbio. Per cercare delle risposte si cimentò anche con le altre religioni, al punto da studiarle praticamente tutte e con un piglio da «teologo mancato». Tracce si percepiscono nelle sue traduzioni dei detti di Rabi’a e nell’approfondimento delle filosofie orientali, spingendosi secondo la sua visionarietà a un passo dal «suicidio ». «L’Oriente è anche il nostro suicidio scrive - , ma a mio avviso è del tutto onesto coltivare con diligenza il nostro minuscolo suicidio. Ci ridimensiona». Con Lietta, che in realtà porta lo stesso nome della nonna, la poetessa Amelia Manganelli («mi chiamò così perché papà volle fare un torto al prete che non mi voleva battezzare, perché quello disse “non era un nome da cristiana”…») per gioco si «scambiava» le figure del Corano e quelle della Bibbia, riportando delle note personali a margine dei due testi che la figlia conserva ancora nella casa di Pisa. Uno studio comparato di fatto, svolto anche sulle filosofie orientali, a partire dai primi viaggi in India e proseguito sulle vie dell’islamismo sfociato poi postumo in L’infinita trama di Allah. Viaggi nell’Islam 1973-’87. E l’immagine letteraria che più lo aveva affascinato era di fatto coranica. «Per lui “Dio è un ago che tesse delle trame delle quali noi umani vediamo solo dei nodi al contrario”. Questa è l’immagine ricorrente che mi citava quando affrontavamo l’argomento. E chi pensa che Manganelli sia stato un ateo, distante dagli uomini di chiesa, si sbaglia di grosso. A Roma ha avuto sempre al suo fianco padre Pierre Riches che affettuosamente chiamava “il mio confessore”. Quando aveva bisogno del suo conforto gli telefonava e gli diceva: “Pierre vieni a trovarmi che dobbiamo parlare di Dio…”. Lo ha fatto fino alla fine, Pierre ha celebrato anche la messa del suo funerale». Il Dio di Manganelli è dunque confidenziale, ma sentito umanamente e pericolosamente vicino, interiorizzato con tutte le sue paure di scrittore che vedeva la «menzogna» ovunque, a cominciare dalla letteratura. «Non vedo nulla davanti a me, e quanto al mio passato mi fa orrore».
Quel Dio al quale si rivolge nell’Intervista è per lui un Dio solo. «La sua immagine del Divino era quella di un uomo che vorrebbe, ma non può. È il Signore che conosce tutte le risposte, ma al quale nessuno si rivolge per porgli effettivamente delle domande. Così di eterno, secondo Manganelli, c’è l’attesa di Dio. Lui aspetta un uomo che invece di supplicarlo richiedendo favori e grazie, gli domandi una volta per tutte il perché e il come dell’universo che lo circonda». Ma le domande non arrivano mai e così la Voce resta isolata e inascoltata e chiude l’Intervista con un melanconico «non c’è più nessun pericolo. Tutto è successo ». Una visione da uomo impantanato in una realtà dalla quale Manganelli ha tentato di sfuggire proprio attraverso la letteratura, restando però invischiato in una condizione angosciante sintetizzabile nel suo titolo finale La palude definitiva «in cui - annota - è difficile entrare e impossibile uscire». Quella volontà di contatto con Dio resta un percorso irrisolto, un viaggio doloroso fatto di incapacità di comunicare («riusciva ad esprimersi e a parlare anche con me che ero sua figlia solo scrivendo ») in un mondo che è «imitatio inferni». Ma come il migliore dei credenti, il suo ateismo mistico fu un’incessante domanda, restando muto e seduto dalla sua poltrona nella silente distanza «da un tibet del non essere» in cui si duole: «Le mie contraddizioni restano sanguinanti, piaghe aperte e intollerabili...». Unico lampo divino, nelle tenebre del dubbio lacerante e contradditorio del passaggio terreno, lo trovò nello sguardo di un bambino disabile, suo nipote. «Quando vide mio figlio Andrea per la prima volta rimase per un’ora incantato a fissare i suoi begli occhi e giorni dopo mi scrisse: “Dio ha il volto di un bambino deforme”. Mio padre, Dio non lo ha mai trovato quaggiù, ma io sono sicura che lassù dove è adesso l’ha incontrato, e davanti a Lui si è presentato con le parole del suo Mangiafuoco: “Io sono un niente, un nessuno”...».
Un testo riapparso fugacemente nel 2001 sul numero di giugno-luglio del “Caffè Illustrato” e poi resuscitato dalla lettura pubblica tenutasi in uno dei pochi luoghi culturali indipendenti di Milano, la Libreria Utopia. Ma l’arcano della mancata pubblicazione (alla quale si è sottratta anche Adelphi che ha i diritti delle opere di Manganelli) è stato finalmente sciolto da un “pescatore di perle” come Diego Dejaco e dalla sua piccola e raffinata casa editrice Sedizioni. Etichetta che già dal nome sarebbe piaciuta all’ars provocatoria dell’autore de Agli dei ulteriori che in questo brevissimo testo (intervista di appena 16 pagine) dopo essersi cimentato con illustri defunti come Fregoli, De Amicis e Nostradamus, fa interrogare «la Voce» V da un giovane giornalista G. Un dialogo serrato e provocatorio, come sempre, ma che va letto tra le sue innumerevoli sfumature. E non ci si fermi dunque alle ombre di un Dio incattivito al quale Manganelli fa dire all’umanità: «Non vi amo, ma odiarvi è troppo faticoso».
Mentre è molto più realistico e quasi autobografico il manganelliano signor G che viene ammonito nel suo atto di registrare l’intervistato impossibilmente speciale: «Come giornalista non deve avere né opinioni, né timori, né speranze...». Questo è il ritratto, quello di uno scrittore disabitato dalla speranza, ma non dalla fede. E l’Intervista a Dio ne è la dimostrazione. Manganelli la scrisse nel 1974 in un periodo in cui oltre alle Interviste radiofoniche si dedicava alla stesura di una piece teatrale mai rappresentata Hight Tea ovvero Il thè nell’empireo in cui alle coppie mitologiche di Amleto e Ofelia, Giocasta e Edipo, affianca quella cristiana di Gesù e la Maddalena. Una scelta quest’ultima non casuale, bensì elaborazione del pensiero di uno scrittore bollato in fretta come ateo e invece profondamente alla “ricerca”. «Quello di Manganelli - interviene sua figlia Lietta - va letto come un misticismo ateo o se preferite come atei- smo mistico. Tutta la vita ha cercato Dio senza trovarlo e lo ha fatto con la paura di chi aveva umanizzato quella figura, cogliendone così quei limiti che erano poi in fondo i suoi». Una ricerca costante che sulla pagina poi finiva per inabissarsi nel suo Ade interiore. «Non riesco a sapere se io stesso sono inferno e dunque l’inferno siano i miei accadimenti». Parole di un uomo che non aveva mai rifiutato Dio, ma anzi quella ricerca aveva avuto solide basi familiari, cresciuta in un ambiente di origine ebraica e poi sfociata in un “cristianesimo folle” che al piccolo Manganelli venne impartito dalla madre. «Sua madre Amelia era praticamente invasata - continua Lietta - . Lasciava biglietti per la casa rivolti a un Dio che implorava affinché non gli facesse bruciare l’arrosto. Mio padre l’assecondava indossando una tenda rossa e con quella girava per la casa vantandosi fiero e divertito di essere un vescovo. Eppure fu sempre riconoscente alla madre per l’educazione che gli aveva dato e nelle bellissime Lettere che gli scrisse parlava del Natale, della figura di Gesù Bambino con una tenerezza che è arrivata per via diretta anche a me e che a mia volta ho trasmesso ai miei figli ai quali recitavo le fiabe partendo dalle figure della Bibbia». Eppure è dall’“insano” approccio spirituale che poi Manganelli ha maturato lo «spavento» verso la religione cristiana che al contempo lo incuriosiva ponendolo nella più alta condizione intellettuale del dubbio. Per cercare delle risposte si cimentò anche con le altre religioni, al punto da studiarle praticamente tutte e con un piglio da «teologo mancato». Tracce si percepiscono nelle sue traduzioni dei detti di Rabi’a e nell’approfondimento delle filosofie orientali, spingendosi secondo la sua visionarietà a un passo dal «suicidio ». «L’Oriente è anche il nostro suicidio scrive - , ma a mio avviso è del tutto onesto coltivare con diligenza il nostro minuscolo suicidio. Ci ridimensiona». Con Lietta, che in realtà porta lo stesso nome della nonna, la poetessa Amelia Manganelli («mi chiamò così perché papà volle fare un torto al prete che non mi voleva battezzare, perché quello disse “non era un nome da cristiana”…») per gioco si «scambiava» le figure del Corano e quelle della Bibbia, riportando delle note personali a margine dei due testi che la figlia conserva ancora nella casa di Pisa. Uno studio comparato di fatto, svolto anche sulle filosofie orientali, a partire dai primi viaggi in India e proseguito sulle vie dell’islamismo sfociato poi postumo in L’infinita trama di Allah. Viaggi nell’Islam 1973-’87. E l’immagine letteraria che più lo aveva affascinato era di fatto coranica. «Per lui “Dio è un ago che tesse delle trame delle quali noi umani vediamo solo dei nodi al contrario”. Questa è l’immagine ricorrente che mi citava quando affrontavamo l’argomento. E chi pensa che Manganelli sia stato un ateo, distante dagli uomini di chiesa, si sbaglia di grosso. A Roma ha avuto sempre al suo fianco padre Pierre Riches che affettuosamente chiamava “il mio confessore”. Quando aveva bisogno del suo conforto gli telefonava e gli diceva: “Pierre vieni a trovarmi che dobbiamo parlare di Dio…”. Lo ha fatto fino alla fine, Pierre ha celebrato anche la messa del suo funerale». Il Dio di Manganelli è dunque confidenziale, ma sentito umanamente e pericolosamente vicino, interiorizzato con tutte le sue paure di scrittore che vedeva la «menzogna» ovunque, a cominciare dalla letteratura. «Non vedo nulla davanti a me, e quanto al mio passato mi fa orrore».
Quel Dio al quale si rivolge nell’Intervista è per lui un Dio solo. «La sua immagine del Divino era quella di un uomo che vorrebbe, ma non può. È il Signore che conosce tutte le risposte, ma al quale nessuno si rivolge per porgli effettivamente delle domande. Così di eterno, secondo Manganelli, c’è l’attesa di Dio. Lui aspetta un uomo che invece di supplicarlo richiedendo favori e grazie, gli domandi una volta per tutte il perché e il come dell’universo che lo circonda». Ma le domande non arrivano mai e così la Voce resta isolata e inascoltata e chiude l’Intervista con un melanconico «non c’è più nessun pericolo. Tutto è successo ». Una visione da uomo impantanato in una realtà dalla quale Manganelli ha tentato di sfuggire proprio attraverso la letteratura, restando però invischiato in una condizione angosciante sintetizzabile nel suo titolo finale La palude definitiva «in cui - annota - è difficile entrare e impossibile uscire». Quella volontà di contatto con Dio resta un percorso irrisolto, un viaggio doloroso fatto di incapacità di comunicare («riusciva ad esprimersi e a parlare anche con me che ero sua figlia solo scrivendo ») in un mondo che è «imitatio inferni». Ma come il migliore dei credenti, il suo ateismo mistico fu un’incessante domanda, restando muto e seduto dalla sua poltrona nella silente distanza «da un tibet del non essere» in cui si duole: «Le mie contraddizioni restano sanguinanti, piaghe aperte e intollerabili...». Unico lampo divino, nelle tenebre del dubbio lacerante e contradditorio del passaggio terreno, lo trovò nello sguardo di un bambino disabile, suo nipote. «Quando vide mio figlio Andrea per la prima volta rimase per un’ora incantato a fissare i suoi begli occhi e giorni dopo mi scrisse: “Dio ha il volto di un bambino deforme”. Mio padre, Dio non lo ha mai trovato quaggiù, ma io sono sicura che lassù dove è adesso l’ha incontrato, e davanti a Lui si è presentato con le parole del suo Mangiafuoco: “Io sono un niente, un nessuno”...».
Così la menzogna mascherò l’inferno
« In Manganelli, c’era una profondissima esperienza cristiana che non trapela mai nell’opera letteraria...». È questa la conclusione a cui arrivò Pietro Citati su 'Repubblica' pochi mesi dopo la scomparsa di Giorgio Manganelli. E da qui vogliamo ripartire con Daniele Piccini che ha curato le Poesie (Crocetti, Milano 2006) di Manganelli e Antonio Spadaro, autore di un saggio sullo scrittore milanese («Letteratura in “penombra mentale”» pubblicato su Civiltà Cattolica nel 2002).
«Nelle Poesie - spiega Daniele Piccini - Manganelli è un autore in formazione e già determinato a giocare e scommettere tutto sulla singola e minima variazione del sintagma. Dio è semmai un problema che sorge “oggettivamente” dalla sua scrittura: per essere rifiutato o meglio allontanato, come una sorta di inaccettabile consolazione. Manganelli non è certo uno scrittore aggiudicabile a un campo cristiano. Forse, più semplicemente, la sua angoscia e la sua stessa millimetrica dedizione allo scarto minimo della parola, al Vocabolario come una sterminata Cabala, è la sua personale risorsa di interrogazione, di inquisizione anche religiosa. Altra cosa, come forse la testimonianza della figlia Lietta può suggerire, è la vita dell’autore. Ma l’opera, credo, ha una sua oggettività e cogenza, che merita rispetto».
Un rispetto che Antonio Spadaro ha soprattutto per il concetto di «menzogna» nell’opera di Manganelli. «La peculiarità del suo approccio dice - è nel fatto che la sua letteratura è, in se stessa, buio, incubo, nevrosi, inferno. In una parola: gratuita “menzogna”, per usare il titolo di un suo famoso volume del ’67, manipolazione di un universo linguistico astratto, pura catapulta verbale, acrobazia linguistica e dunque confronto con il nulla, segno in un buco nero di vuoto e silenzio. Per Manganelli la vera letteratura è notturna e nottambula. Una letteratura che mette le sue basi quando, come scrisse, “Lucifero scende e progetta con i suoi aiutanti un efficace inferno”. Ma a questo punto ci si può chiedere: nel momento in cui uno scrittore afferma che “la letteratura è menzogna”, non si comporta come quel cretese che afferma che tutti i cretesi sono bugiardi? In effetti Manganelli denuncia la letteratura come menzognera e, nello stesso momento, forse ne annuncia di lontano la “verità”». Una verità che quindi rimanda a una dimensione ultraterrena?
«Non voglio inoltrarmi nei sentieri della religiosità dell’uomo-Manganelli - puntualizza Spadaro - , cerco piuttosto di capire se proprio nella sua opera ci sia (e quale essa sia) una linea di fuga di carattere teologico. Da Manganelli si può ricavare, al di là delle intemperanze e delle vertigini della sua scrittura, un’istanza impegnativa: la positiva tensione verso una “liberazione” della letteratura dalla superficialità, dalla banalità. Qui riconosco l’apertura di uno spazio significativo, importante nella linea della ulteriorità tipica della visione cristiana. Il rischio che, a mio avviso, egli corre è che questa tensione si traduca nella semplice fuga nel sub o nel surreale. Manganelli però ci aiuta a tenere aperta la questione del significato, intesa come ferita aperta, irriducibile alla semplificazione e alla mera arguzia».
«Nelle Poesie - spiega Daniele Piccini - Manganelli è un autore in formazione e già determinato a giocare e scommettere tutto sulla singola e minima variazione del sintagma. Dio è semmai un problema che sorge “oggettivamente” dalla sua scrittura: per essere rifiutato o meglio allontanato, come una sorta di inaccettabile consolazione. Manganelli non è certo uno scrittore aggiudicabile a un campo cristiano. Forse, più semplicemente, la sua angoscia e la sua stessa millimetrica dedizione allo scarto minimo della parola, al Vocabolario come una sterminata Cabala, è la sua personale risorsa di interrogazione, di inquisizione anche religiosa. Altra cosa, come forse la testimonianza della figlia Lietta può suggerire, è la vita dell’autore. Ma l’opera, credo, ha una sua oggettività e cogenza, che merita rispetto».
Un rispetto che Antonio Spadaro ha soprattutto per il concetto di «menzogna» nell’opera di Manganelli. «La peculiarità del suo approccio dice - è nel fatto che la sua letteratura è, in se stessa, buio, incubo, nevrosi, inferno. In una parola: gratuita “menzogna”, per usare il titolo di un suo famoso volume del ’67, manipolazione di un universo linguistico astratto, pura catapulta verbale, acrobazia linguistica e dunque confronto con il nulla, segno in un buco nero di vuoto e silenzio. Per Manganelli la vera letteratura è notturna e nottambula. Una letteratura che mette le sue basi quando, come scrisse, “Lucifero scende e progetta con i suoi aiutanti un efficace inferno”. Ma a questo punto ci si può chiedere: nel momento in cui uno scrittore afferma che “la letteratura è menzogna”, non si comporta come quel cretese che afferma che tutti i cretesi sono bugiardi? In effetti Manganelli denuncia la letteratura come menzognera e, nello stesso momento, forse ne annuncia di lontano la “verità”». Una verità che quindi rimanda a una dimensione ultraterrena?
«Non voglio inoltrarmi nei sentieri della religiosità dell’uomo-Manganelli - puntualizza Spadaro - , cerco piuttosto di capire se proprio nella sua opera ci sia (e quale essa sia) una linea di fuga di carattere teologico. Da Manganelli si può ricavare, al di là delle intemperanze e delle vertigini della sua scrittura, un’istanza impegnativa: la positiva tensione verso una “liberazione” della letteratura dalla superficialità, dalla banalità. Qui riconosco l’apertura di uno spazio significativo, importante nella linea della ulteriorità tipica della visione cristiana. Il rischio che, a mio avviso, egli corre è che questa tensione si traduca nella semplice fuga nel sub o nel surreale. Manganelli però ci aiuta a tenere aperta la questione del significato, intesa come ferita aperta, irriducibile alla semplificazione e alla mera arguzia».
«Avvenire» del 14 dicembre 2007
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