Una lezione dall’antichità, Atene e Sparta caddero perché non ci fu la cooptazione
Di Luciano Canfora
Di Luciano Canfora
Da stranieri a cittadini: ecco il segreto della forza di Roma
Venti giorni prima della capitolazione della Germania, il 19 ottobre 1918, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff pubblicò nell’edizione berlinese del quotidiano Der Tag un breve e molto efficace articolo intitolato «Untergang Karthagos». Nella situazione drammatica di quei giorni convulsi, la breve rievocazione della distruzione di Cartagine fortemente voluta dal Senato romano parla in realtà del presente, della prevedibile catastrofe tedesca, della resa incondizionata che gli occidentali pretendono dai tedeschi dopo aver inventato una «colpa tedesca». La rievocazione, in tratti essenziali, dell’imperialismo rapace praticato dai romani non potrebbe essere più efficace. Un dettaglio va aggiunto a tale descrizione: che la decisione, presa a freddo, di annientare Cartagine quantunque vinta e da tempo non più pericolosa, era stata presa esattamente nel momento stesso in cui i cartaginesi saldavano l’ultima pesantissima rata delle cinquanta annualità di tributi cui li aveva sottomessi il trattato di pace (cioè di capitolazione) del 201 a.C. «Il bottino e i tributi - scrive lo storico dell’antichità Jérôme Carcopino - vennero prelevati dapprincipio al solo fine di rimarcare la soggezione dei vinti e perpetuarla, ma finirono ben presto per piacere in quanto tali: arricchirono i capi e, al tempo stesso, innalzarono il livello di vita del popolo». Così, ad esempio, a partire dal 167 il popolo poté non più pagare un’imposta che i tributi inflitti sine die alla Macedonia rendevano inutili. Oro e schiavi erano la posta in gioco nelle guerre del mondo antico. Nel caso delle guerre di conquista romane si trattava di tonnellate d’oro e di eserciti di schiavi. E quando il bottino già fatto - nonostante il sistema di scientifico sfruttamento delle province - cominciava ad esaurirsi, si profilavano nuovi obiettivi di conquista: la decisione di Traiano di attaccare il regno di Decebalo, cioè la Dacia, e di annetterlo, nasce da tale spinta. L’impero che non punta ad espandersi deperisce: ciò è inerente al modo di produzione antico che impone che la guerra si risolva nella spoliazione del vinto. Ecco perché la strategia imperiale difensiva a suo tempo adottata da Pericle contro Sparta risultò perdente. Ecco perché nel «discorso di guerra» L’impero mondiale di Augusto Wilamowitz indica nella Pax Augusta l’inizio della decadenza dell’impero. Eppure per secoli, la reazione a questo sistema - spoliazione del vinto nel momento della conquista e oppressione spietata dopo la sua trasformazione in provincia - non fu quella che ci si poteva aspettare. Per lo meno, le voci a noi giunte di critica all’imperialismo di rapina sono poche. La lettera di Mitridate ad Arsace che Sallustio inserì nelle Historiae rielaborandola sulla base forse di un documento autentico, e il discorso del capo britannico Calgaco («ubi solitudinem faciunt pacem appellant»), reso eterno dalla scelta di Tacito di darne conto con rilievo nell’Agricola non sono che eccezioni. I Romani seppero però anche, dopo aver tratto dai vinti tutti i vantaggi possibili, dividerli e creare una élite provinciale filoromana da cooptare persino, in alcuni casi, con l’immissione in Senato. È sempre Tacito che coglie l’importanza e l’efficacia di questa arte di governare l’impero, quando dà alle parole di Claudio in favore dell’immissione in Senato dei primores Galliae il valore di risposta a distanza delle parole di Calgaco. Il segreto della durevolezza dell’impero - spiega Claudio - è nell’aver saputo cooptare. Se Atene e Sparta decaddero, ciò deriva dall’uso geloso e miope che esse fecero della cittadinanza. Romolo - prosegue Claudio - sin dalle origini aprì ad una «feccia» di stranieri la città appena sorta e li fece cittadini optimo iure. Per Claudio, e si può dire anche per Tacito, è nella gestione della cittadinanza, nella sua progressiva estensione, il segreto dell’impero. Quando Caracalla (212 d.C.) la estese a tutte le civitates dell’impero, parve che esso ne trasse nuova e durevole linfa. Se, com’è probabile, l’estensione della cittadinanza introdotta da Caracalla («constitutio antoniniana») era limitata appunto alle popolazioni urbane, fu il mondo rurale a provocare di lì a poco una crisi quasi mortale per l’impero: quella sommersione delle civitates ad opera delle masse di contadini-soldati che diede a Mikhail Rostovcev la spinta ad immaginare una suggestiva analogia tra la crisi del III secolo e la Russia dell’ottobre 1917. La crisi invece fu superata grazie al formarsi di una nuova autocrazia, non più temperata dal conflitto col ceto senatorio. È la teocrazia dioclezianea e poi cristiano-costantiniana che rendeva tutti pari di fronte all’autocrate, il quale, grazie all’intuizione geniale di Costantino, seppe assicurarsi il formidabile appoggio della nuova, popolarissima, religione di salvezza della quale egli stesso si impose come leader. Incominciava allora un altro genere di impero, che facendo perno sulla «Seconda Roma» durò per un millennio.
«Corriere della sera» dell’11 dicembre 2007
Nessun commento:
Posta un commento