Dispiace per il «Corriere» e gli altri giornaloni
di Eugenia Roccella
Nessuno, tra i grandi giornali italiani, ha mai pubblicato un’inchiesta sulla pillola abortiva Ru486. Anche ai tempi della sperimentazione all’ospedale torinese Sant’Anna, sospesa nel 2006 in seguito a un’indagine della Procura, sulla stampa si potevano leggere le infiammate dichiarazioni dei politici pro o contro l’intervento dell’allora ministro della Salute Storace. Ma sul farmaco, e sull’aborto chimico, l’informazione è sempre stata reticente. Non abbiamo mai letto, in Italia, un servizio su Holly Patterson, diciottenne californiana, la cui tragica morte ha innescato una furibonda polemica sulla Ru486 che ha occupato per mesi le prime pagine dei quotidiani americani. Non abbiamo mai letto le vicende delle 16 donne morte, tirate fuori una a una dal silenzio grazie all’ostinazione disperata dei parenti, alla rabbia di alcune femministe, ai movimenti pro-life, a qualche medico impegnato sul fronte dei diritti umani.
Persino la Fiapac – la Federazione internazionale degli operatori di aborto e contraccezione – non ha mai ritenuto necessario rendere pubblica la notizia di una donna morta a Cuba, fornita da un medico all’interno del convegno svolto a Roma l’anno scorso. E se siamo venuti a conoscenza della morte di tre – forse quattro – donne inglesi è solo perché il dato è emerso nel corso di un’indagine del parlamento di Londra; ma di quelle donne non sappiamo tuttora i nomi né le storie. Ci sarebbe dunque ampio spazio per una stimolante inchiesta giornalistica, e molto materiale che aspetta solo di essere pubblicato. Per questo abbiamo letto con grande attenzione le due pagine che ieri il Corriere della Sera ha finalmente dedicato alla pillola abortiva, attualmente sotto esame dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa). Ma la delusione è stata pesante. Nulla sulle morti, tranne un vago accenno ad «alcuni decessi per setticemia», ma poco anche sul metodo, che viene descritto con un breve accenno al protocollo d’uso in Toscana, mentre le testimonianze riportate sono tutte positive. Non si dice che si tratta di una tecnica che tutti gli studi, e quasi tutte le donne, descrivono come molto dolorosa; non si dice che si perde molto sangue, e che fino al 15° giorno non si può sapere se sarà necessario ricorrere a un raschiamento conclusivo; non si dice che bisogna continuamente controllare l’emorragia, e che oltre la metà delle donne riconosce l’embrione abortito. Per quanto riguarda la registrazione della pillola in Italia, il Corriere la dà per scontata. Secondo l’autrice dell’articolo, poiché la Ru486 è autorizzata in quasi tutti i Paesi europei ed è già stata somministrata a oltre un milione di donne, «in realtà c’è poco da verificare». E aggiunge che «un Paese dell’Unione europea non può respingere un medicinale già commercializzato in un altro Stato comunitario». Ma autorizzare un farmaco è sempre una responsabilità grave, che non si può ridurre a un semplice iter burocratico, soprattutto se su quel farmaco gravano ombre e sospetti dovuti alle infezioni, le emorragie e le varie complicanze che hanno portato alla morte 16 giovani donne. Basterebbe ricordare che l’Aifa ha ritirato dal commercio un noto vaccino trivalente per molto meno – un numero ritenuto troppo alto di reazioni gravi, ma nessuna morte – e che sulla Nimesulide, principio attivo di un diffusissimo antiinfiammatorio, l’atteggiamento è stato diverso sia tra gli Stati europei (alcuni lo commercializzano, altri no) sia tra l’ente farmacologico europeo, che ne ammette l’uso, e quello americano che ha messo al bando la sostanza. L’Aifa non può ignorare che negli ultimi tempi i sospetti sulla Ru486 si sono moltiplicati, e i casi di morte venuti così faticosamente a galla non possono certo essere liquidati con leggerezza. La Francia è il Paese che ha attivato la procedura di 'mutuo riconoscimento', ma è alle autorità sanitarie italiane che è affidata la tutela della nostra salute. E sono loro a dover decidere.
«Avvenire» del 18 dicembre 2007
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