Cosa è rimasto dell’utopia che segnò il ’900? A rivendicarla sono ormai sempre meno
di Giordano Bruno Guerri
Fiducioso nell’animo umano, sono portato a credere che i comunisti siano uomini sostanzialmente buoni, preoccupati del bene comune e, in particolare, di quello dei più deboli. È ovvio che una simile affermazione necessita di parecchi distinguo, ma almeno due sono indispensabili.
Il primo distinguo riguarda il ruolo e l’atteggiamento dei capi, di ogni epoca, luogo e idea. Un capo non può - e non deve - essere prima di tutto «buono», bensì pragmatico. Il suo compito principale è la vittoria sugli avversari esterni e interni, per imporre anzitutto se stesso e di conseguenza le proprie idee. Di certo non erano buoni, dunque, né Lenin, né Stalin, né Trotzsky, né Mao, né Togliatti e via calando, lungo il corso della storia e del tempo. Vivevano una vera utopia generosa, invece, gli idealisti convinti sul serio che il comunismo potesse portare a una specie di paradiso in terra, senza oppressi e senza oppressori. E pazienza - si fa per dire - se, alla base del comunismo degli umili, non c’erano utopie nobili ma un più concreto e meno nobile odio di classe, basato sul principio che bisogna togliere a chi ha di più, indipendentemente dai meriti. (Già alla fine di questo primo distinguo si arriva alla conclusione che i comunisti che ho definito «buoni», quelli tutto ideale, sono stati una minoranza nella minoranza.)
Un secondo distinguo riguarda i tempi. Essere comunisti poteva avere un senso, etico e anche apparentemente razionale, nella prima metà del Novecento. Soprattutto in certe regioni del mondo - Russia, Cina - masse immense vivevano in condizioni subumane, soggette a uno sfruttamento selvaggio e senza sbocco. Poteva avere un senso anche in Occidente, dove la rivoluzione industriale e il capitalismo non avevano ancora fatto i conti con i diritti e le necessità oggettive dei lavoratori. Ma che senso ha dirsi comunisti oggi, dopo l’autocertificazione del fallimento politico, economico, sociale, ideale del comunismo in un disastro apocalittico?
Eppure, in Italia abbiamo ancora due partiti che si fregiano del nome «comunista» e due quotidiani - il manifesto e Liberazione - che si definiscono tali. È vero che la «Cosa rossa», nascitura, con ogni probabilità non si varrà di quell’aggettivo ingombrante e fallimentare; e pare che stia per rinunciarci anche il manifesto. Ma cambierà poco nella sostanza, e viene da sorridere amaro leggendo che falce e martello verranno sostituiti, forse, da un bullone. Tante sofferenze, tanti sogni falliti, pagati e fatti pagare a caro prezzo, per passare da un martello a un bullone. È cosa che fa dubitare non solo del buon senso, ma anche del buon senno di chi in questi giorni si sta adoperando per coprire il passato, e riscoprire il futuro, con un segno grafico, come si trattasse di correggere una svista con un colpo di gomma.
Per tutti questi motivi ho subito letto il libro, appena uscito, di Marco Rizzo, Perché ancora comunisti. Le ragioni di una scelta (Baldini Castoldi Dalai, pagg. 140, euro 10). Rizzo a me è simpatico, proprio perché lo considero buono nel senso più pieno del termine: è convinto in buona fede di quello che fa, e lo fa sicuro di operare per un bene superiore.
Peccato che buona parte del libro se ne vada in analisi della politica nostrana e in risse interne, prima con gli ex pci, poi con i ds, infine soprattutto con Bertinotti, che sarebbe assurto al ruolo di segretario per meriti televisivi, in quanto capace di far fronte alla «nuova politica “catodica” introdotta da Berlusconi»: senza il quale, dunque, «sarebbe molto probabilmente finito in qualche centro studi del sindacato». Rizzo se la prende anche, diamogliene merito, con la politica che, anche a sinistra, «sta diventando un luogo che elargisce privilegi». Ammette pure che, nella storia mondiale del movimento comunista, «vi siano stati errori e tragedie».
Ma, insomma, quali sono gli ideali per cui vale ancora la pena di essere comunista, a novanta anni dalla rivoluzione d’ottobre e a diciotto dalla caduta del Muro? Eccoli: «Rilanciare i valori della giustizia sociale e della solidarietà in una lotta continua contro la sopraffazione e il privilegio». Bene, mi piace, ci sto. Allora sono comunista anch’io? No, perché la ricetta finale, di Rizzo e di tutti i comunisti, è sempre quella, cucinata in ogni modo e sempre fallita: «Superare il capitalismo». Se non che il capitalismo - con i suoi innegabili difetti - ha prodotto più ricchezza diffusa, e quindi più giustizia sociale, di quanta ne abbia trovata al suo nascere. Mentre il comunismo, in ogni salsa e in ogni luogo, ha portato non il benessere né la giustizia, ma l’annichilimento dell’individuo, delle sue libertà e delle sue speranze. E non basterà un bullone, né la buona volontà di alcuni, a cambiarlo ...
Il primo distinguo riguarda il ruolo e l’atteggiamento dei capi, di ogni epoca, luogo e idea. Un capo non può - e non deve - essere prima di tutto «buono», bensì pragmatico. Il suo compito principale è la vittoria sugli avversari esterni e interni, per imporre anzitutto se stesso e di conseguenza le proprie idee. Di certo non erano buoni, dunque, né Lenin, né Stalin, né Trotzsky, né Mao, né Togliatti e via calando, lungo il corso della storia e del tempo. Vivevano una vera utopia generosa, invece, gli idealisti convinti sul serio che il comunismo potesse portare a una specie di paradiso in terra, senza oppressi e senza oppressori. E pazienza - si fa per dire - se, alla base del comunismo degli umili, non c’erano utopie nobili ma un più concreto e meno nobile odio di classe, basato sul principio che bisogna togliere a chi ha di più, indipendentemente dai meriti. (Già alla fine di questo primo distinguo si arriva alla conclusione che i comunisti che ho definito «buoni», quelli tutto ideale, sono stati una minoranza nella minoranza.)
Un secondo distinguo riguarda i tempi. Essere comunisti poteva avere un senso, etico e anche apparentemente razionale, nella prima metà del Novecento. Soprattutto in certe regioni del mondo - Russia, Cina - masse immense vivevano in condizioni subumane, soggette a uno sfruttamento selvaggio e senza sbocco. Poteva avere un senso anche in Occidente, dove la rivoluzione industriale e il capitalismo non avevano ancora fatto i conti con i diritti e le necessità oggettive dei lavoratori. Ma che senso ha dirsi comunisti oggi, dopo l’autocertificazione del fallimento politico, economico, sociale, ideale del comunismo in un disastro apocalittico?
Eppure, in Italia abbiamo ancora due partiti che si fregiano del nome «comunista» e due quotidiani - il manifesto e Liberazione - che si definiscono tali. È vero che la «Cosa rossa», nascitura, con ogni probabilità non si varrà di quell’aggettivo ingombrante e fallimentare; e pare che stia per rinunciarci anche il manifesto. Ma cambierà poco nella sostanza, e viene da sorridere amaro leggendo che falce e martello verranno sostituiti, forse, da un bullone. Tante sofferenze, tanti sogni falliti, pagati e fatti pagare a caro prezzo, per passare da un martello a un bullone. È cosa che fa dubitare non solo del buon senso, ma anche del buon senno di chi in questi giorni si sta adoperando per coprire il passato, e riscoprire il futuro, con un segno grafico, come si trattasse di correggere una svista con un colpo di gomma.
Per tutti questi motivi ho subito letto il libro, appena uscito, di Marco Rizzo, Perché ancora comunisti. Le ragioni di una scelta (Baldini Castoldi Dalai, pagg. 140, euro 10). Rizzo a me è simpatico, proprio perché lo considero buono nel senso più pieno del termine: è convinto in buona fede di quello che fa, e lo fa sicuro di operare per un bene superiore.
Peccato che buona parte del libro se ne vada in analisi della politica nostrana e in risse interne, prima con gli ex pci, poi con i ds, infine soprattutto con Bertinotti, che sarebbe assurto al ruolo di segretario per meriti televisivi, in quanto capace di far fronte alla «nuova politica “catodica” introdotta da Berlusconi»: senza il quale, dunque, «sarebbe molto probabilmente finito in qualche centro studi del sindacato». Rizzo se la prende anche, diamogliene merito, con la politica che, anche a sinistra, «sta diventando un luogo che elargisce privilegi». Ammette pure che, nella storia mondiale del movimento comunista, «vi siano stati errori e tragedie».
Ma, insomma, quali sono gli ideali per cui vale ancora la pena di essere comunista, a novanta anni dalla rivoluzione d’ottobre e a diciotto dalla caduta del Muro? Eccoli: «Rilanciare i valori della giustizia sociale e della solidarietà in una lotta continua contro la sopraffazione e il privilegio». Bene, mi piace, ci sto. Allora sono comunista anch’io? No, perché la ricetta finale, di Rizzo e di tutti i comunisti, è sempre quella, cucinata in ogni modo e sempre fallita: «Superare il capitalismo». Se non che il capitalismo - con i suoi innegabili difetti - ha prodotto più ricchezza diffusa, e quindi più giustizia sociale, di quanta ne abbia trovata al suo nascere. Mentre il comunismo, in ogni salsa e in ogni luogo, ha portato non il benessere né la giustizia, ma l’annichilimento dell’individuo, delle sue libertà e delle sue speranze. E non basterà un bullone, né la buona volontà di alcuni, a cambiarlo ...
«Il Giornale» del 28 novembre 2007
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