Ciò che conta, in un romanzo, è la coerenza interna, non l’adesione alla realtà
di Paolo Di Stefano
«Ammiro la sua arte, ma, molto semplicemente, non gli credo». Così Masolino D’Amico concludeva, su Tuttolibri del 1 dicembre, la recensione del nuovo romanzo di Ian McEwan, Chesil Beach (Einaudi). Curiosa argomentazione. Il libro narra di due giovani appena sposati che nell’Inghilterra del 1962 si apprestano a consumare la loro prima notte di matrimonio in un alberghetto sul mare. Sono vergini e l’imbarazzo è prevedibile, non la caduta in un precipizio di goffaggine e di incomprensione. Florence fugge dal letto, Edward la insegue sulla spiaggia, ma non c’è nulla da fare, le parole sfuggono loro di bocca e aggravano le cose. I due si lasceranno per sempre. Per D’Amico quella strana situazione, nei primi anni ‘60, è «discretamente improbabile». È autorizzato a dirlo, sostiene, avendo la stessa età dei due personaggi di McEwan e avendo vissuto, in quegli anni, «nell’ancora più provinciale e bigotta Irlanda». Probabilmente, incalza, lo scrittore ha voluto raccontare un caso-limite, «poco rappresentativo», oppure ha voluto «forzare la verità». Conclusione: «Ammiro la sua arte, ma non gli credo». Ammettiamo pure che, a differenza di Florence e Edward, nell’Inghilterra del ‘62 molte giovani coppie digiune di sesso abbiano affrontato la loro prima notte senza drammi. Statisticamente ineccepibile. Ma che cosa cambia? In altri termini: quello della credibilità storico-sociologica è davvero un buon criterio per giudicare un’opera letteraria? Non aveva piuttosto ragione Coleridge quando invitava il lettore a sospendere la sua incredulità di fronte a un testo letterario? E ad accettare il patto implicito imposto dalla letteratura: lo scrittore fa finta di fare un’affermazione vera e il lettore finge di crederci. Manzoni mi racconta, come fossero vere, le travagliate vicende che precedono le nozze di due giovani e io non sto a obiettargli che in fondo nel 1630 moltissime coppie lombarde si sono sposate senza problemi. Caso limite? Certo. Anche quello di Julien Sorel è un caso limite, perché è probabile che in genere nella Francia di inizio ‘800 i giovani precettori non avessero nessuna tentazione di innamorarsi della moglie del loro datore di lavoro. Si sarebbe mai potuto dire di Stendhal: lo ammiro ma non gli credo? Detto questo, è vero che McEwan colloca la sua storia (dai connotati molto realistici) in quegli anni anche con lo scopo di sottolineare l’enormità del mutamento successivo, a rivoluzione sessuale avvenuta. Dunque, rispetto alle date che mette in campo dovrebbe essere per lo meno coerente sul piano referenziale. Ma quel che conta, alla fine, è la verosimiglianza, cioè la verità interna al romanzo: Giuliette e Romei, Renzi e Lucie devono muoversi dentro i loro mondi (possibili ed espressivi, non reali) con perfetta coerenza e senza errori. Altrimenti, si chiede il Piccolo fratello: se pretendiamo che le uniche regole siano quelle della nostra esperienza, 1984 di Orwell, scritto nel ‘48 e letto oggi, sarebbe da buttare via? E perché mai, mentre siamo disposti a credere alle fiction tv, non dovremmo accettare di riconoscere alla letteratura quel che è della letteratura? A meno di ritenere, come si tende a fare oggi, che la letteratura sia la realtà scottante di Gomorra e poco altro.
«Corriere della sera» dell’11 dicembre 2007
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