di Luca Doninelli
Una notizia, quattro fatti. Primo fatto: gli studenti italiani sono quelli che passano il maggior numero di ore in classe rispetto ai compagni degli altri Paesi dell’Ocse.
Secondo fatto: sono tra i peggiori per quanto riguarda i risultati (ventiseiesimo posto sia nella lettura sia in matematica, con diverse posizioni perse nel giro di pochi anni).
Terzo fatto: i loro insegnanti sono quelli che stanno in classe il numero minore di ore annue.
Quarto fatto: gli studenti italiani costano il 24% in più dei loro compagni stranieri.
In altre parole: gli insegnanti sono troppi e i loro (modesti) stipendi assorbono la stragrande maggioranza degli investimenti destinati alla scuola.
In questi dati scarni c’è un preciso ritratto del nostro Paese, che non vogliamo guardare. Un Paese che da tempo ha rinunciato a immaginare il proprio futuro, lasciando questo compito, nella migliore delle ipotesi, alla buona volontà dei singoli. La prima osservazione, quasi ovvia, che viene da fare è che per troppo tempo la scuola italiana è stata trattata come un problema eminentemente occupazionale da un lato e, dall’altro, come uno spazio - o meglio, come un insieme di molti spazi - da conquistare. Problema occupazionale, ossia: la scuola deve dare innanzitutto lavoro. Perché prima c’era un solo maestro elementare mentre poi ne sono stati necessari tre? Fu un’esigenza educativa a dettare questa riforma? No.
L’educazione dei giovani è un problema che investe tutto un Paese, e la scuola ne è parte essenziale. Educare vuol dire aiutare i giovani a diventare uomini adulti, in grado di assumere le proprie responsabilità fino in fondo. La scuola fa la sua parte in questo grande compito trasmettendo conoscenze.
Questo è lo scopo della scuola, non certo quello di dare lavoro a laureati disoccupati. Viceversa, se la scuola viene trattata come un problema statistico, il primo elemento ad essere messo fuori gioco è proprio il più importante: il valore della persona. E non parlo solo della persona del giovane, ma anche di quella dello stesso insegnante. Non basta, infatti, dare a una persona un’occupazione e uno stipendio: bisogna darle anche uno scopo. Un lavoro senza scopo è degradante e umiliante.
Se, dunque, le risorse pubbliche vengono allocate così malamente, la ragione sta in una totale mancanza di chiarezza sulla funzione e sugli obiettivi della scuola e del sistema che si regge su di essa. Possiamo aggiungere che, alla radice di questo problema, al di là dell’ottusità dimostrata più volte dai sindacati (i quali però sono spesso i soli a farsi carico della solitudine degli insegnanti), c’è un problema ancora maggiore, quello dell’università, dove le rendite di posizione sembrano essere la sola istituzione incrollabile, a fronte di una funzione - educativa e scientifica - sempre più precaria. Ma la scuola è anche un insieme di spazi da occupare. L’assenza di un vero progetto ha portato a un vero assalto a questi spazi da parte di ideologie e gruppi più o meno politicizzati. I ragazzi (e in parte anche i loro insegnanti) sono diventati le cavie, i topi di laboratorio di una congerie di teorie psicopedagogiche con conseguenze devastanti in tutti i campi, in primis i manuali scolastici.
Sfogliate i manuali dei vostri figli e giudicate da voi se da quei libri di storia emerge il valore della ricerca dell’obiettività e della verità storica; se quei libri di filosofia offrono la minima possibilità di comprendere e apprezzare davvero l’opera dei filosofi; se quelle antologie di letteratura possono introdurre davvero alla bellezza e alla forza della letteratura. Sfogliate certi libri di geografia e ditemi se quella è geografia o pura e semplice ideologia. Chiamarli libri è esagerato: sono spazi, semplici spazi che qualcuno occupa in una casa editrice, e attraverso questa nelle ore scolastiche. Una questione di potere, insomma. Pensate che gran parte dei testi di religione cattolica pubblicati in Italia non ricevono nemmeno l’approvazione della Conferenza Episcopale: se questo - al di là del giudizio che possiamo avere sulla Cei - non è fare le cose «a capocchia»...
I dati che stiamo leggendo e commentando non sono solo preoccupanti in sé, ma ci obbligano a riflettere sullo stato di tutto un Paese. La ricerca isterica della visibilità da parte ormai di tutti (dal vip che deve continuamente apparire in tv o sui giornali al poveraccio che spera di rivedersi in tv) non è che uno dei sintomi del malessere generale, di un vuoto che sta crescendo dentro di noi. Sarebbe un crimine lasciar crescere questo vuoto. L’Italia non lo merita, e non lo meritano nemmeno i nostri giovani, che per intelligenza e capacità non sono certo al ventiseiesimo posto.
Secondo fatto: sono tra i peggiori per quanto riguarda i risultati (ventiseiesimo posto sia nella lettura sia in matematica, con diverse posizioni perse nel giro di pochi anni).
Terzo fatto: i loro insegnanti sono quelli che stanno in classe il numero minore di ore annue.
Quarto fatto: gli studenti italiani costano il 24% in più dei loro compagni stranieri.
In altre parole: gli insegnanti sono troppi e i loro (modesti) stipendi assorbono la stragrande maggioranza degli investimenti destinati alla scuola.
In questi dati scarni c’è un preciso ritratto del nostro Paese, che non vogliamo guardare. Un Paese che da tempo ha rinunciato a immaginare il proprio futuro, lasciando questo compito, nella migliore delle ipotesi, alla buona volontà dei singoli. La prima osservazione, quasi ovvia, che viene da fare è che per troppo tempo la scuola italiana è stata trattata come un problema eminentemente occupazionale da un lato e, dall’altro, come uno spazio - o meglio, come un insieme di molti spazi - da conquistare. Problema occupazionale, ossia: la scuola deve dare innanzitutto lavoro. Perché prima c’era un solo maestro elementare mentre poi ne sono stati necessari tre? Fu un’esigenza educativa a dettare questa riforma? No.
L’educazione dei giovani è un problema che investe tutto un Paese, e la scuola ne è parte essenziale. Educare vuol dire aiutare i giovani a diventare uomini adulti, in grado di assumere le proprie responsabilità fino in fondo. La scuola fa la sua parte in questo grande compito trasmettendo conoscenze.
Questo è lo scopo della scuola, non certo quello di dare lavoro a laureati disoccupati. Viceversa, se la scuola viene trattata come un problema statistico, il primo elemento ad essere messo fuori gioco è proprio il più importante: il valore della persona. E non parlo solo della persona del giovane, ma anche di quella dello stesso insegnante. Non basta, infatti, dare a una persona un’occupazione e uno stipendio: bisogna darle anche uno scopo. Un lavoro senza scopo è degradante e umiliante.
Se, dunque, le risorse pubbliche vengono allocate così malamente, la ragione sta in una totale mancanza di chiarezza sulla funzione e sugli obiettivi della scuola e del sistema che si regge su di essa. Possiamo aggiungere che, alla radice di questo problema, al di là dell’ottusità dimostrata più volte dai sindacati (i quali però sono spesso i soli a farsi carico della solitudine degli insegnanti), c’è un problema ancora maggiore, quello dell’università, dove le rendite di posizione sembrano essere la sola istituzione incrollabile, a fronte di una funzione - educativa e scientifica - sempre più precaria. Ma la scuola è anche un insieme di spazi da occupare. L’assenza di un vero progetto ha portato a un vero assalto a questi spazi da parte di ideologie e gruppi più o meno politicizzati. I ragazzi (e in parte anche i loro insegnanti) sono diventati le cavie, i topi di laboratorio di una congerie di teorie psicopedagogiche con conseguenze devastanti in tutti i campi, in primis i manuali scolastici.
Sfogliate i manuali dei vostri figli e giudicate da voi se da quei libri di storia emerge il valore della ricerca dell’obiettività e della verità storica; se quei libri di filosofia offrono la minima possibilità di comprendere e apprezzare davvero l’opera dei filosofi; se quelle antologie di letteratura possono introdurre davvero alla bellezza e alla forza della letteratura. Sfogliate certi libri di geografia e ditemi se quella è geografia o pura e semplice ideologia. Chiamarli libri è esagerato: sono spazi, semplici spazi che qualcuno occupa in una casa editrice, e attraverso questa nelle ore scolastiche. Una questione di potere, insomma. Pensate che gran parte dei testi di religione cattolica pubblicati in Italia non ricevono nemmeno l’approvazione della Conferenza Episcopale: se questo - al di là del giudizio che possiamo avere sulla Cei - non è fare le cose «a capocchia»...
I dati che stiamo leggendo e commentando non sono solo preoccupanti in sé, ma ci obbligano a riflettere sullo stato di tutto un Paese. La ricerca isterica della visibilità da parte ormai di tutti (dal vip che deve continuamente apparire in tv o sui giornali al poveraccio che spera di rivedersi in tv) non è che uno dei sintomi del malessere generale, di un vuoto che sta crescendo dentro di noi. Sarebbe un crimine lasciar crescere questo vuoto. L’Italia non lo merita, e non lo meritano nemmeno i nostri giovani, che per intelligenza e capacità non sono certo al ventiseiesimo posto.
«Il Giornale» del 9 novembre 2007
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