L’autore di «Danubio» a confronto con il saggista e narratore argentino Alberto Manguel
Di Claudio Magris
Di Claudio Magris
Ogni biblioteca è l’incarnazione del mondo e niente eguaglia lo stupore di «Guerra e Pace»
Altri possono gloriarsi dei libri che hanno scritto. Ha detto Borges, la mia gloria sono i libri che ho letto. Non solo perché i grandi libri li scrivono gli altri, ma forse anche perché nemmeno la gioia più profonda per una creazione uscita dalle proprie mani eguaglia il felice e grato stupore di scoprire che qualcun altro (o meglio qualche libro altrui, l’autore conta poco, è sempre come se fosse ignoto) ha capito, detto e rappresentato il nostro cuore, i nostri pensieri, il nostro senso della vita e ha creato un mondo nostro fino a quel momento per noi stesso vago e incerto. Non credo che se avessi scritto il ballo di Natascia in Guerra e pace sarei più felice - a parte la vanità degli elogi o delle statue nelle piazze - e neanche più fiero di quel giorno in cui l’ho letto. I libri, dice un passo bellissimo del Computer di Sant’Agostino di Alberto Manguel, fanno capire la vita, uno sguardo amato o la luce che avvolge un albero; nel Diario di un lettore egli aggiunge che essi illuminano di colpo il passato e la cronaca quotidiana. Nato e radicato a Buenos Aires e insieme di casa nel mondo come nelle biblioteche che lo contengono e ne sono contenute, saggista e narratore, Manguel è uno scrittore tranquillamente geniale che ha saputo trasformare la lettura in scrittura, in un romanzo dell’avventura con i libri che diviene avventura nella vita; leggere e annotare Omero diventa scrivere una biografia, più che del poeta, dell’immaginario occidentale (Omero. Iliade e Odissea. Una biografia). La sua Biblioteca di notte vuol essere una mappa di questa fortezza dello spirito e della follia, vista da tutte le parti e in tutte le sue implicazioni, nella sua poliedrica varietà che la fa essere tante cose: ordine ma anche mito, potere e laboratorio, isola e universo, memoria e oblio, casa e foresta, identità e metamorfosi. È un libro straordinario sull’esperienza della biblioteca, in cui chiunque abbia a che fare con i libri ritrova una parte di se stesso - io avrei amato che Manguel insistesse ancora di più sui metodici deliri con cui si cerca di dar ordine, con coatti spostamenti di scaffali, a una biblioteca che cresce in casa proliferante e divoratrice come una piovra cartacea. I libri dicono la vita, gli chiedo, ma forse anche la loro insufficienza rispetto ad essa, come in quella Sua intensa pagina in cui la prima esperienza d’amore Le fa sentire che nessuna letteratura è alla sua altezza. Non c’è il pericolo che il libro anche irrigidisca o falsifichi l’esistenza? «La carne è triste e ho letto tutti i libri», sta scritto, e quei libri sembrano rendere ancor più greve la tristezza. I grandi fondatori dell’universalità, da Socrate a Buddha a Gesù, non hanno voluto scrivere, temendo di mummificare la realtà vivente della parola...
Manguel: Lei non lo sa, ma il mio dialogo con lei è iniziato parecchi anni fa, con la lettura di Danubio, e sono lieto di proseguirlo ora. Talvolta ho la sensazione che Gesù, Buddha e Socrate sapessero che qualcun altro avrebbe scritto per loro. Forse non temevano di mummificare, come Lei dice, la realtà vivente della parola, ma piuttosto è come se avessero letto anzitempo Mallarmé e credessero che tutte le parole, se significative, dovessero diventare libri, giacché «in fondo, il mondo esiste per approdare a un bel libro». Questo giustificherebbe la nostra intuizione che le biblioteche siano l’incarnazione del mondo tramite parole Magris: La biblioteca è vita, libertà; aiuta a resistere a tirannidi e conformismi. Ma quale programma totale, cattedrale del sapere che contiene tutto, è anche inquietante: il progetto della biblioteca ideale di Boullée (1785), riprodotto nel Suo libro, ha l’angoscia di un falansterio, di un tempio laico in cui c’è tutto, non resta una fessura, un vuoto, una fuga...
Manguel: Sono d’accordo. Il fatto che tutte le parole del mondo siano o possano essere sotto un unico tetto, non significa che i loro lettori sappiano usarle nel modo giusto. Un cumulo di conoscenze non è conoscenza e sappiamo che, ad onta di tutte le nostre speranzose metafore, un libro non è niente altro che una pila di carta macchiata d’inchiostro e diventa vivo solo quando il suo artefice lo trasforma in qualcosa di reale, di attivo, e anche in questo caso non garantisce nulla. È quasi un luogo comune parlare di tutti quei tiranni, torturatori, criminali che sono stati anche grandi lettori. Durante la dittatura militare in Argentina c’era un generale che, quando un coraggioso giornalista gli disse che un giorno sarebbe stato giudicato per le cose orribili che aveva fatto, rispose citando a memoria gli ultimi versi del Cyrano de Bergerac e vantandosi di portar: «meco, senza piega né macchia, a Dio/ il pennacchio mio!». Se penso che Cyrano era uno dei miei primi amori adolescenti Magris: Non c’è talvolta il pericolo che un libro, anziché essere un mondo o un oceano in cui ci si tuffa in avventurosa scoperta (come io mi tuffavo nel Gange dei Misteri della giungla nera di Salgari, il primo libro che ho letto), sia uno scudo, una barricata che mettiamo fra noi e la vita? «Un libro - diceva Valéry - aiuta a non pensare»; ci svia da ciò che dovremmo affrontare e ci angoscia e prenderlo in mano diventa un tic scaramantico, come quando ce lo portiamo perfino al gabinetto incapaci di star soli con noi stessi anche per qualche minuto...
Manguel: Lo so. Siamo come Cervantes, il quale diceva di leggere perfino i pezzi di carta stracciata che trovava per strada. Ma non sono certo che Valéry abbia ragione. Perfino quando siamo trasportati dalla corrente delle parole, quando ci lasciamo trascinare dal testo senza fermarci a chiederci dove stiamo andando, la lettura in sé, credo, stimola necessariamente il pensiero. Forse come una corrente nascosta, sottomarina, come nei sogni Perché le parole chiamano, sollecitano parole. È questo che vorrei chiamare «pensare per citazioni», una forma particolare di pensiero nata dalla lettura. Naturalmente, la grande maggioranza dell’umanità non legge libri Magris: I bibliotecari di Musil, che Lei cita, non leggono. Oggi a leggere veramente sono solo i lettori non professionisti, anonimi, che non hanno alcun dovere di leggere. I lettori di professione - critici, recensori, editori, insegnanti, titolari di rubriche culturali televisive - dovendo saper dire qualcosa su centinaia di libri, possono solo sfogliarne un paio di pagine e la quarta di copertina, senza leggerne nessuno. «Chi non legge ha un’anima anoressica». - ha scritto Miro Silvera nella sua deliziosa Libroterapia - boccheggia per scarsa ossigenazione spirituale. Che un effetto analogo sia raggiunto da una bulimia di troppi libri, che stordisce?
Manguel: Siamo avidi di parole. Come Cervantes, la maggior parte dei lettori tende a leggere ogni cosa, d’ogni genere. E nelle nostre società del rapido e del facile, questa tendenza è divenuta malsana. Ogni cosa ci circonda con vacui rumori e sterili immagini, sicché diviene impossibile trovare il silenzio per pensare, perfino per conversare nei caffé e nei ristoranti, con la musica ad alto volume e il tremolante schermo televisivo sempre acceso. Ma forse questa "bulimia", come Lei la chiama, non nasce solo dal bisogno di sentirci meno soli con la sola eco dei nostri pensieri. Cerchiamo di essere ottimisti. Forse abbiamo tutti qualcosa della fede di quelle autorità delle confraternite musulmane al Cairo, che non distruggevano mai un pezzo di carta scritta perché poteva segretamente contenere il nome di Dio. Forse crediamo inconsciamente che nel prossimo pezzo di carta, sul prossimo schermo, ci sarà rivelato qualcosa che ci illuminerà o salverà. Questa è la mia segreta speranza.
Manguel: Lei non lo sa, ma il mio dialogo con lei è iniziato parecchi anni fa, con la lettura di Danubio, e sono lieto di proseguirlo ora. Talvolta ho la sensazione che Gesù, Buddha e Socrate sapessero che qualcun altro avrebbe scritto per loro. Forse non temevano di mummificare, come Lei dice, la realtà vivente della parola, ma piuttosto è come se avessero letto anzitempo Mallarmé e credessero che tutte le parole, se significative, dovessero diventare libri, giacché «in fondo, il mondo esiste per approdare a un bel libro». Questo giustificherebbe la nostra intuizione che le biblioteche siano l’incarnazione del mondo tramite parole Magris: La biblioteca è vita, libertà; aiuta a resistere a tirannidi e conformismi. Ma quale programma totale, cattedrale del sapere che contiene tutto, è anche inquietante: il progetto della biblioteca ideale di Boullée (1785), riprodotto nel Suo libro, ha l’angoscia di un falansterio, di un tempio laico in cui c’è tutto, non resta una fessura, un vuoto, una fuga...
Manguel: Sono d’accordo. Il fatto che tutte le parole del mondo siano o possano essere sotto un unico tetto, non significa che i loro lettori sappiano usarle nel modo giusto. Un cumulo di conoscenze non è conoscenza e sappiamo che, ad onta di tutte le nostre speranzose metafore, un libro non è niente altro che una pila di carta macchiata d’inchiostro e diventa vivo solo quando il suo artefice lo trasforma in qualcosa di reale, di attivo, e anche in questo caso non garantisce nulla. È quasi un luogo comune parlare di tutti quei tiranni, torturatori, criminali che sono stati anche grandi lettori. Durante la dittatura militare in Argentina c’era un generale che, quando un coraggioso giornalista gli disse che un giorno sarebbe stato giudicato per le cose orribili che aveva fatto, rispose citando a memoria gli ultimi versi del Cyrano de Bergerac e vantandosi di portar: «meco, senza piega né macchia, a Dio/ il pennacchio mio!». Se penso che Cyrano era uno dei miei primi amori adolescenti Magris: Non c’è talvolta il pericolo che un libro, anziché essere un mondo o un oceano in cui ci si tuffa in avventurosa scoperta (come io mi tuffavo nel Gange dei Misteri della giungla nera di Salgari, il primo libro che ho letto), sia uno scudo, una barricata che mettiamo fra noi e la vita? «Un libro - diceva Valéry - aiuta a non pensare»; ci svia da ciò che dovremmo affrontare e ci angoscia e prenderlo in mano diventa un tic scaramantico, come quando ce lo portiamo perfino al gabinetto incapaci di star soli con noi stessi anche per qualche minuto...
Manguel: Lo so. Siamo come Cervantes, il quale diceva di leggere perfino i pezzi di carta stracciata che trovava per strada. Ma non sono certo che Valéry abbia ragione. Perfino quando siamo trasportati dalla corrente delle parole, quando ci lasciamo trascinare dal testo senza fermarci a chiederci dove stiamo andando, la lettura in sé, credo, stimola necessariamente il pensiero. Forse come una corrente nascosta, sottomarina, come nei sogni Perché le parole chiamano, sollecitano parole. È questo che vorrei chiamare «pensare per citazioni», una forma particolare di pensiero nata dalla lettura. Naturalmente, la grande maggioranza dell’umanità non legge libri Magris: I bibliotecari di Musil, che Lei cita, non leggono. Oggi a leggere veramente sono solo i lettori non professionisti, anonimi, che non hanno alcun dovere di leggere. I lettori di professione - critici, recensori, editori, insegnanti, titolari di rubriche culturali televisive - dovendo saper dire qualcosa su centinaia di libri, possono solo sfogliarne un paio di pagine e la quarta di copertina, senza leggerne nessuno. «Chi non legge ha un’anima anoressica». - ha scritto Miro Silvera nella sua deliziosa Libroterapia - boccheggia per scarsa ossigenazione spirituale. Che un effetto analogo sia raggiunto da una bulimia di troppi libri, che stordisce?
Manguel: Siamo avidi di parole. Come Cervantes, la maggior parte dei lettori tende a leggere ogni cosa, d’ogni genere. E nelle nostre società del rapido e del facile, questa tendenza è divenuta malsana. Ogni cosa ci circonda con vacui rumori e sterili immagini, sicché diviene impossibile trovare il silenzio per pensare, perfino per conversare nei caffé e nei ristoranti, con la musica ad alto volume e il tremolante schermo televisivo sempre acceso. Ma forse questa "bulimia", come Lei la chiama, non nasce solo dal bisogno di sentirci meno soli con la sola eco dei nostri pensieri. Cerchiamo di essere ottimisti. Forse abbiamo tutti qualcosa della fede di quelle autorità delle confraternite musulmane al Cairo, che non distruggevano mai un pezzo di carta scritta perché poteva segretamente contenere il nome di Dio. Forse crediamo inconsciamente che nel prossimo pezzo di carta, sul prossimo schermo, ci sarà rivelato qualcosa che ci illuminerà o salverà. Questa è la mia segreta speranza.
«Corriere della sera» del 2 dicembre 2007
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