di Ezio Savino
I primi a interrogarsi sull’identità di Omero furono i greci antichi, che gettarono le basi di un’avvincente «questione», tutt’altro che risolta. A scriverne un capitolo nuovo e sorprendente è oggi Raoul Schrott, poeta austriaco, poliglotta, che con l’antichità ellenica ha fitti rapporti, dato che ne evoca i miti nella raccolta Hotels, ma soprattutto avendo tradotto l’Iliade. Schrott aveva in precedenza tradotto anche l’epopea di Gilgamesh, leggendario re di Uruk, le cui gesta risalivano alla remota antichità sumerica. Noi però ne conosciamo una tarda redazione, trascritta su una decina di tavolette d’argilla sepolte a Ninive, nella biblioteca di Assurbanipal (VII sec. a. C.), sovrano degli Assiri. E proprio all’ambiente assiro il letterato austriaco riconduce Omero.
Sarebbe stato uno scrivano, un addetto alle corrispondenze diplomatiche che gli Assiri intrattenevano con le potenze del Mediterraneo. Il suo lavoro si sarebbe svolto in Cilicia, Sud-Est dell’attuale Turchia, possedimento assiro e plausibile quadro geografico della celeberrima guerra, che non si sarebbe dunque combattuta all’ombra di Hissarlik (identificata da Schliemann come la Troia omerica), ma sotto l’acropoli di Karatepe, una fortezza le cui rovine rivelano una certa aderenza con i versi epici di Omero, mostrando due porte, di cui una, la Scea, «Sinistra», rivolta al fiume Piramo, quello Scamandro omerico che Achille arrossò con il sangue delle sue vittime.
Dunque i Danai, gli Achei «dai bei gambali» non erano i sudditi di quell’Agamennone, sire di Micene «ricca d’oro», il cui volto Schliemann sosteneva d’aver ammirato sotto la maschera funebre, quando ne disseppellì la tomba, presso la Porta dei Leoni? Per nulla: erano Assiri, e i documenti esibiti da Schrott dimostrano che quei guerrieri armati di ferro (Omero, però, li retrodata all’epoca delle spade e delle armature di bronzo) si chiamavano anch’essi con quegli epici nomi. Ci vorrà tempo, per approfondire, verificare i dati della scoperta.
Qualche dubbio fiorisce subito. Dei Cilici, Omero parla una volta sola, equivocando: li fa signori di Tebe Ipoplacia, patria di Andromaca, moglie di Ettore e figlia di Eetione, che però signoreggiava sulla Misia, non sulla Cilicia. I comparativisti hanno da sempre messo in luce le affinità tra le grandi composizioni epiche: similitudini, duelli, dei che fanno la spola fra cielo e terra formano l’armamentario poetico non solo della saga sumerica o iliadica, ma anche di quella sanscrita del Ramayana, o finnica del Kalevala. C’è poi da aggiungere che se Omero delinea un autoritratto, lo fa descrivendo gli aedi Femio e Demodoco, intenti a cantare nelle corti signorili: e tra le loro mani c’erano le cetre armoniose dei cantori, non le penne - un po’ prosaiche - degli impiegati di cancelleria.
Sarebbe stato uno scrivano, un addetto alle corrispondenze diplomatiche che gli Assiri intrattenevano con le potenze del Mediterraneo. Il suo lavoro si sarebbe svolto in Cilicia, Sud-Est dell’attuale Turchia, possedimento assiro e plausibile quadro geografico della celeberrima guerra, che non si sarebbe dunque combattuta all’ombra di Hissarlik (identificata da Schliemann come la Troia omerica), ma sotto l’acropoli di Karatepe, una fortezza le cui rovine rivelano una certa aderenza con i versi epici di Omero, mostrando due porte, di cui una, la Scea, «Sinistra», rivolta al fiume Piramo, quello Scamandro omerico che Achille arrossò con il sangue delle sue vittime.
Dunque i Danai, gli Achei «dai bei gambali» non erano i sudditi di quell’Agamennone, sire di Micene «ricca d’oro», il cui volto Schliemann sosteneva d’aver ammirato sotto la maschera funebre, quando ne disseppellì la tomba, presso la Porta dei Leoni? Per nulla: erano Assiri, e i documenti esibiti da Schrott dimostrano che quei guerrieri armati di ferro (Omero, però, li retrodata all’epoca delle spade e delle armature di bronzo) si chiamavano anch’essi con quegli epici nomi. Ci vorrà tempo, per approfondire, verificare i dati della scoperta.
Qualche dubbio fiorisce subito. Dei Cilici, Omero parla una volta sola, equivocando: li fa signori di Tebe Ipoplacia, patria di Andromaca, moglie di Ettore e figlia di Eetione, che però signoreggiava sulla Misia, non sulla Cilicia. I comparativisti hanno da sempre messo in luce le affinità tra le grandi composizioni epiche: similitudini, duelli, dei che fanno la spola fra cielo e terra formano l’armamentario poetico non solo della saga sumerica o iliadica, ma anche di quella sanscrita del Ramayana, o finnica del Kalevala. C’è poi da aggiungere che se Omero delinea un autoritratto, lo fa descrivendo gli aedi Femio e Demodoco, intenti a cantare nelle corti signorili: e tra le loro mani c’erano le cetre armoniose dei cantori, non le penne - un po’ prosaiche - degli impiegati di cancelleria.
«Il Giornale» del 23 dicembre 2007
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