L’utopia anarchica della Rete soccombe davanti a pirati e interferenze politico-economiche: Forum mondiale a Rio de Janeiro
di Giuseppe Romano
L’Internet Governance Forum che s’è svolto a Rio de Janeiro dal 12 al 15 novembre era un evento. E non soltanto perché vi partecipavano delegazioni governative di novanta nazioni, organizzazioni internazionali e imprese private. In ballo c’era una materia scottante: il governo dell’Internet. Significa accordi internazionali per la gestione della tecnologia, ma anche per attenuare il digital divide tra Paesi ricchi e poveri e per tutelare i diritti dei più deboli. Inoltre, leggi certe a difesa della privacy. Noi italiani abbiamo ottenuto qualcosa d’importante. La nostra delegazione era portatrice di una Bill of Rights, una carta dei diritti e dei doveri nell’Internet, che – ha dichiarato il sottosegretario alle Comunicazioni Luigi Vimercati, capodelegazione – «tuteli la libertà e l’accesso di tutti». Dopo un acceso dibattito, al termine del Forum è stato sottoscritto un accordo bilaterale tra Italia e Brasile, Paese organizzatore, affinché la “Costituzione” dell’Internet venga proposta come tema fondamentale nel prossimo Forum, in programma a Nuova Delhi l’anno venturo. La strada è tortuosa. Il dibattito rimonta ai primi vagiti della rete globale, ed è dovuto ai presupposti, tecnologici ma anche ideologici, su cui si basa l’Internet: decentramento assoluto, libertà senza confini, possibilità di esprimersi, di dialogare, di discutere senza limitazioni. Nonché di comprare e di vendere, di pubblicizzarsi e di commercializzarsi su scala globale. S’è constatato il villaggio digitale globale genera nuovi reati. In Usa, dicono le statistiche, le vittime di furto d’identità si aggirano tra i sette e i dieci milioni annui dal 2003 al 2007. Spacciarsi per un’altra persona fittizia o reale è tutt’altro che impossibile per chi sa come muoversi, e intercettare codici fiscali, numeri di carte di credito, codici d’accesso a sistemi di pagamento e a conti correnti in Rete. Avviene dappertutto, anche in Italia. Sono frodi che in massima parte avvengono o partono dalla rete elettronica.
Per esempio con quelle mail che a tutti è capitato di ricevere da qualcuno che, imitando banche, poste, istituti vari, invita ad «accedere per una verifica della password». Il reato connesso si chiama phishing (significa “spillaggio” di dati sensibili) e non pochi abboccano. Ci sono altri problemi. Gli undicimila delegati ufficiali che tre anni fa, nel novembre 2005, si riunirono a Tunisi sotto l’egida dell’Onu per dibattere sulla libertà nell’Internet, erano giunti al punto di rottura sulle ingerenze dei governi nella Rete. Obiettivo principale di alcune nazioni – tra cui Cina e Cuba – era sottrarre il bastone del comando agli Stati Uniti. Che, essendone i creatori, sono stati a lungo anche i gestori dell’architettura che tiene in funzione la connessione mondiale. Se i server transoceanici funzionano, se i siti e gli indirizzi elettronici hanno nomi che non si confondono e non s’impasticciano, lo dobbiamo a un ente statunitense che fa di nome Icann (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers). A Tunisi prevalse una linea ragionevole. Gli Stati sovrani avrebbero acquisito responsabilità sui domini Internet nazionali (.it, e via dicendo), e si sarebbe iniziato un percorso di discussione.
Momenti consultivi per definire un assetto dell’Internet che tenga conto delle esigenze e dei diritti di tutti: vale a dire Stati, cittadini, aziende. Proprio da queste ultime vengono segnali inquietanti. Se infatti qualsiasi criminale può usare la rete a fini distorti – furti, pedofilia, mafie ecc. –, è ancor più vero che enormi interessi commerciali rischiano di condizionare pesantemente la facilità e libertà di comunicazione. In Cina, nel 2004, Google e Yahoo hanno accettato con una discussa decisione che il governo locale imponesse restrizioni sugli argomenti rintracciabili con i loro motori di ricerca. E così «Tibet libero» scomparve dai link accessibili ai cinesi. Censura? Allo stesso modo in Germania e in Austria, dove la legge li vieta, vengono rimossi i contenuti neonazisti. Da tempo si sospettava che le etichette discografiche e cinematografiche usassero mezzi poco ortodossi per difendersi dai pirati informatici.
Se n’è avuta conferma a settembre scorso, quando mani misteriose hanno violato e diffuso la corrispondenza riservata di Media Defender, organizzazione che – per conto di aziende dello spettacolo – contrasta il file sharing sulla Rete. Migliaia di mail documentavano effrazioni, tracciamenti, spionaggi elettronici a danno di cittadini preventivamente ritenuti sospettabili di copiare canzoni e film. Il rischio che l’Internet si riduca a un territorio lottizzato e controllato a scopi politici e commerciali è così prossimo che qualcuno invita a tagliare la testa al toro, coniando il termine di
deprivacy: la cessione volontaria dei propri diritti in materia da parte del cittadino. Il quale, in questo modo, potrebbe almeno negoziare con governi e industrie l’uso che viene fatto dei dati sensibili che gli vengono sottratti. Non Ë una boutade, se si considera la fonte: Donald Kerr, direttore del Dni.
La sigla sta per Director of National Intelligence, ed è l’organo preposto alla sicurezza e alla prevenzione antiterrorismo in Usa dopo l’11 Settembre. Sì, c’è proprio bisogno di ragionare su un “governo dell’Internet”. Che metta tutti al riparo, per quanto possibile, dall’ingerenza clamorosa o nascosta di chiunque, per qualsiasi ragione, in qualsiasi maniera. Senza regole non c’è libertà che tenga.
Per esempio con quelle mail che a tutti è capitato di ricevere da qualcuno che, imitando banche, poste, istituti vari, invita ad «accedere per una verifica della password». Il reato connesso si chiama phishing (significa “spillaggio” di dati sensibili) e non pochi abboccano. Ci sono altri problemi. Gli undicimila delegati ufficiali che tre anni fa, nel novembre 2005, si riunirono a Tunisi sotto l’egida dell’Onu per dibattere sulla libertà nell’Internet, erano giunti al punto di rottura sulle ingerenze dei governi nella Rete. Obiettivo principale di alcune nazioni – tra cui Cina e Cuba – era sottrarre il bastone del comando agli Stati Uniti. Che, essendone i creatori, sono stati a lungo anche i gestori dell’architettura che tiene in funzione la connessione mondiale. Se i server transoceanici funzionano, se i siti e gli indirizzi elettronici hanno nomi che non si confondono e non s’impasticciano, lo dobbiamo a un ente statunitense che fa di nome Icann (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers). A Tunisi prevalse una linea ragionevole. Gli Stati sovrani avrebbero acquisito responsabilità sui domini Internet nazionali (.it, e via dicendo), e si sarebbe iniziato un percorso di discussione.
Momenti consultivi per definire un assetto dell’Internet che tenga conto delle esigenze e dei diritti di tutti: vale a dire Stati, cittadini, aziende. Proprio da queste ultime vengono segnali inquietanti. Se infatti qualsiasi criminale può usare la rete a fini distorti – furti, pedofilia, mafie ecc. –, è ancor più vero che enormi interessi commerciali rischiano di condizionare pesantemente la facilità e libertà di comunicazione. In Cina, nel 2004, Google e Yahoo hanno accettato con una discussa decisione che il governo locale imponesse restrizioni sugli argomenti rintracciabili con i loro motori di ricerca. E così «Tibet libero» scomparve dai link accessibili ai cinesi. Censura? Allo stesso modo in Germania e in Austria, dove la legge li vieta, vengono rimossi i contenuti neonazisti. Da tempo si sospettava che le etichette discografiche e cinematografiche usassero mezzi poco ortodossi per difendersi dai pirati informatici.
Se n’è avuta conferma a settembre scorso, quando mani misteriose hanno violato e diffuso la corrispondenza riservata di Media Defender, organizzazione che – per conto di aziende dello spettacolo – contrasta il file sharing sulla Rete. Migliaia di mail documentavano effrazioni, tracciamenti, spionaggi elettronici a danno di cittadini preventivamente ritenuti sospettabili di copiare canzoni e film. Il rischio che l’Internet si riduca a un territorio lottizzato e controllato a scopi politici e commerciali è così prossimo che qualcuno invita a tagliare la testa al toro, coniando il termine di
deprivacy: la cessione volontaria dei propri diritti in materia da parte del cittadino. Il quale, in questo modo, potrebbe almeno negoziare con governi e industrie l’uso che viene fatto dei dati sensibili che gli vengono sottratti. Non Ë una boutade, se si considera la fonte: Donald Kerr, direttore del Dni.
La sigla sta per Director of National Intelligence, ed è l’organo preposto alla sicurezza e alla prevenzione antiterrorismo in Usa dopo l’11 Settembre. Sì, c’è proprio bisogno di ragionare su un “governo dell’Internet”. Che metta tutti al riparo, per quanto possibile, dall’ingerenza clamorosa o nascosta di chiunque, per qualsiasi ragione, in qualsiasi maniera. Senza regole non c’è libertà che tenga.
«Avvenire» del 22 novembre 2007
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