Quale ruolo per la religione nello spazio pubblico europeo: parlano tre intellettuali dopo gli interventi di Habermas e Garton Ash
di Andrea Galli
«Perché mai i cittadini laici non dovrebbero poter ravvisare le proprie intuizioni, per quanto recondite o represse, nel contenuto potenziale di verità di un discorso religioso?». Dall’alto dei suoi 79 anni e di una carriera che ne ha fatto una figura ineludibile nel panorama della filosofia contemporanea, Jürgen Habermas ha preso carta e penna per rispondere a Paolo Flores d’Arcais. Lo ha fatto su Die Zeit di giovedì – un intervento riportato ieri su Repubblica – dove una settimana prima Flores D’Arcais aveva pubblicato «Undici tesi contro Habermas », sul filo conduttore de «Le religioni sono potenti abbastanza, per cui è un errore se i filosofi le celebrano come risorse di significato per la democrazia». Riferimento alle note posizioni del pensatore tedesco, intrattenutosi sul tema del rapporto tra fede e laicità in diverse occasioni negli ultimi anni, la più celebre delle quali resta il dibattito con l’allora cardinale Ratzinger nel 2004.
Una risposta, quella di Habermas, che prende le distanze dal relativismo radicale di Flores e che trova il favore, a caldo, di Carlo Cardia, docente di diritto ecclesiastico e filosofia del diritto all’Università di Roma Tre, oltre che uno dei massimi esperti italiani nei rapporti tra Stato e Chiesa: «Habermas dimostra di opporsi a qualsiasi atteggiamento non solo censorio, ma autocensorio della società, perché dice che questa non può privarsi di contenuti etici da qualunque parte essi provengano, quindi anche da comunità di ispirazione religiosa. Del resto, di amputare la democrazia da questi contributi nessuno l’ha mai pensato, intendo nessun classico della democrazia, da Locke a Rousseau a Montesquieu…». Eppure richieste di questo tipo sono incessanti proprio da coloro che dicono di rifarsi a questi filosofi. «Si tratta, in realtà, di un’istanza maturata negli ultimi due decenni, quando il conflitto si è determinato sulla visione etica.
Il concentrarsi sulla 'religione' o 'religiosità' è un po’ strumentale: quello che si intende dire è, spesso, semplicemente questo: che non ci può essere una visione etica da cui scaturisce una visione anche normativa, ossia che la legge non può avere un fondamento etico. Il che è paradossale: se andiamo a leggere i lavori parlamentari che precedono un testo normativo – da destra a sinistra – chiunque può trovare una messe di riferimenti all’etica, per il semplice motivo che tutti in realtà hanno una qualche concezione etica di riferimento».
Quindi si tende a spostare il dibattito sulla religione, perché è un bersaglio più facile? «La religione in questo tipo di polemiche viene intesa come una cosa astratta, come se uno si mettesse a citare la Scrittura per dedurne un articolo di legge: ma la religione è una concezione della vita da cui scaturisce una concezione dell’uomo, dell’etica».
Per Giuseppe Dalla Torre, giurista e rettore della Lumsa, «l’intervento di Habermas mette fuori gioco la pretesa di ricacciare nel privato la dimensione religiosa. E la distinzione che lui fa tra ambito pubblico, in cui si sviluppa un dibattito a cui contribuiscono realtà di ispirazione religiosa, e ambito statale, in cui le istanze di queste realtà devono essere tradotte in termini 'laici' e quindi condivisibili da tutti, ecco questo dimostra una consonanza forte con il pensiero cattolico. Il Papa in più occasioni ha esortato i fedeli impegnati nelle istituzioni ad argomentare le proprie posizioni – pensiamo all’ambito della bioetica – in termini razionali, che possano offrire un ponte a coloro che hanno la buona volontà di dialogare.
Più scivoloso è semmai il passo in cui Habermas ricorda che 'le chiese travalicherebbero i limiti di una cultura politica liberale se adottassero per i propri fini politici la strategia di appellarsi direttamente alla coscienza religiosa'. Se rimaniamo nell’ambito della Chiesa cattolica, beh, questa non interviene per fini politici, per ottenere 'leggi cattoliche'. Quando interviene lo fa per tutelare principi di morale naturale, cioè un bene comune a tutti».
Michele Lenoci, ordinario di Storia della filosofia contemporanea all’Università Cattolica di Milano, vede un’apertura di credito ulteriore nella posizione di Habermas: «Il lato forse più interessante di questo articolo non è il riconoscimento del fatto che le istanze religiose possono entrare in ambito istituzionale se 'tradotte', se 'razionalizzate' in termini che possono essere accettati anche dai non credenti. Quanto il fatto che, dice Habermas, bisogna lasciare esprimere pubblicamente le voci ispirate a posizioni di fede anche quando queste non sono ancora state tradotte in un linguaggio condiviso. Questo perché potrebbero esserlo in futuro, e comunque impedire a queste voci di esprimersi potrebbe privare il dibattito pubblico di contributi molto importanti, per tutti». Una tesi che sembra simpatetica con l’idea di tolleranza espressa sempre ieri su Repubblica dallo storico inglese Timothy Garton Ash, con la sua proposta di una «Carta dei principi per credenti e non credenti»... «Io prenderei le distanze da quanto Garton Ash sostiene riguardo alla società liberale, quando dice che in essa è fondamentale la libertà di espressione e in questa 'rientra necessariamente la libertà di offendere': in democrazia è legittimo dissentire, anche in modo aspro, ma ciò non equivale ad offendere. L’offesa non significa 'non condividere', ma irridere, non tenere conto della dignità altrui. E questo non è legittimo. Ma Garton Ash sostiene due tesi condivisibili, cioè che la posizione di chi difende la libertà 'della religione' va distinta da quella di chi vuole una libertà 'dalla religione'. Chi opta per la seconda 'libertà', propone un atteggiamento non liberale, ma in realtà dogmatico. Interessante è poi l’idea, soprattutto per quanto riguarda il dialogo con l’islam, di usare quello che in filosofia si chiama principio di carità: se un musulmano si esprime a favore della democrazie o di libertà civili, non andiamogli a dire 'ma ci sono testi dell’islam che smentiscono la tua posizione...'; prendiamo piuttosto atto della sua buona fede, e in seguito andiamo ad approfondire se ci sono aporie o contraddizioni che devono essere risolte. Insomma un principio di dialogo possibile. Anche se non certo facile».
Una risposta, quella di Habermas, che prende le distanze dal relativismo radicale di Flores e che trova il favore, a caldo, di Carlo Cardia, docente di diritto ecclesiastico e filosofia del diritto all’Università di Roma Tre, oltre che uno dei massimi esperti italiani nei rapporti tra Stato e Chiesa: «Habermas dimostra di opporsi a qualsiasi atteggiamento non solo censorio, ma autocensorio della società, perché dice che questa non può privarsi di contenuti etici da qualunque parte essi provengano, quindi anche da comunità di ispirazione religiosa. Del resto, di amputare la democrazia da questi contributi nessuno l’ha mai pensato, intendo nessun classico della democrazia, da Locke a Rousseau a Montesquieu…». Eppure richieste di questo tipo sono incessanti proprio da coloro che dicono di rifarsi a questi filosofi. «Si tratta, in realtà, di un’istanza maturata negli ultimi due decenni, quando il conflitto si è determinato sulla visione etica.
Il concentrarsi sulla 'religione' o 'religiosità' è un po’ strumentale: quello che si intende dire è, spesso, semplicemente questo: che non ci può essere una visione etica da cui scaturisce una visione anche normativa, ossia che la legge non può avere un fondamento etico. Il che è paradossale: se andiamo a leggere i lavori parlamentari che precedono un testo normativo – da destra a sinistra – chiunque può trovare una messe di riferimenti all’etica, per il semplice motivo che tutti in realtà hanno una qualche concezione etica di riferimento».
Quindi si tende a spostare il dibattito sulla religione, perché è un bersaglio più facile? «La religione in questo tipo di polemiche viene intesa come una cosa astratta, come se uno si mettesse a citare la Scrittura per dedurne un articolo di legge: ma la religione è una concezione della vita da cui scaturisce una concezione dell’uomo, dell’etica».
Per Giuseppe Dalla Torre, giurista e rettore della Lumsa, «l’intervento di Habermas mette fuori gioco la pretesa di ricacciare nel privato la dimensione religiosa. E la distinzione che lui fa tra ambito pubblico, in cui si sviluppa un dibattito a cui contribuiscono realtà di ispirazione religiosa, e ambito statale, in cui le istanze di queste realtà devono essere tradotte in termini 'laici' e quindi condivisibili da tutti, ecco questo dimostra una consonanza forte con il pensiero cattolico. Il Papa in più occasioni ha esortato i fedeli impegnati nelle istituzioni ad argomentare le proprie posizioni – pensiamo all’ambito della bioetica – in termini razionali, che possano offrire un ponte a coloro che hanno la buona volontà di dialogare.
Più scivoloso è semmai il passo in cui Habermas ricorda che 'le chiese travalicherebbero i limiti di una cultura politica liberale se adottassero per i propri fini politici la strategia di appellarsi direttamente alla coscienza religiosa'. Se rimaniamo nell’ambito della Chiesa cattolica, beh, questa non interviene per fini politici, per ottenere 'leggi cattoliche'. Quando interviene lo fa per tutelare principi di morale naturale, cioè un bene comune a tutti».
Michele Lenoci, ordinario di Storia della filosofia contemporanea all’Università Cattolica di Milano, vede un’apertura di credito ulteriore nella posizione di Habermas: «Il lato forse più interessante di questo articolo non è il riconoscimento del fatto che le istanze religiose possono entrare in ambito istituzionale se 'tradotte', se 'razionalizzate' in termini che possono essere accettati anche dai non credenti. Quanto il fatto che, dice Habermas, bisogna lasciare esprimere pubblicamente le voci ispirate a posizioni di fede anche quando queste non sono ancora state tradotte in un linguaggio condiviso. Questo perché potrebbero esserlo in futuro, e comunque impedire a queste voci di esprimersi potrebbe privare il dibattito pubblico di contributi molto importanti, per tutti». Una tesi che sembra simpatetica con l’idea di tolleranza espressa sempre ieri su Repubblica dallo storico inglese Timothy Garton Ash, con la sua proposta di una «Carta dei principi per credenti e non credenti»... «Io prenderei le distanze da quanto Garton Ash sostiene riguardo alla società liberale, quando dice che in essa è fondamentale la libertà di espressione e in questa 'rientra necessariamente la libertà di offendere': in democrazia è legittimo dissentire, anche in modo aspro, ma ciò non equivale ad offendere. L’offesa non significa 'non condividere', ma irridere, non tenere conto della dignità altrui. E questo non è legittimo. Ma Garton Ash sostiene due tesi condivisibili, cioè che la posizione di chi difende la libertà 'della religione' va distinta da quella di chi vuole una libertà 'dalla religione'. Chi opta per la seconda 'libertà', propone un atteggiamento non liberale, ma in realtà dogmatico. Interessante è poi l’idea, soprattutto per quanto riguarda il dialogo con l’islam, di usare quello che in filosofia si chiama principio di carità: se un musulmano si esprime a favore della democrazie o di libertà civili, non andiamogli a dire 'ma ci sono testi dell’islam che smentiscono la tua posizione...'; prendiamo piuttosto atto della sua buona fede, e in seguito andiamo ad approfondire se ci sono aporie o contraddizioni che devono essere risolte. Insomma un principio di dialogo possibile. Anche se non certo facile».
«Avvenire» del 1 dicembre 2007
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